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Quattro ergastoli e altre pene detentive tra i sedici ed i tre anni, questa la richiesta della pubblica accusa per i presunti mandanti, esecutori e concorrenti all’omicidio Fortugno. È stato chiesto, quindi, l’ergastolo per Alessandro e Giuseppe Marcianò, quali presunti mandanti dell’omicidio.
I reati contestati: omicidio premeditato in concorso con connessi reati in materia di armi, associazione mafiosa con disponibilità di armi; altrettanto è stato chiesto per il presunto killer, Salvatore Ritorto (nella foto il giorno dell’arresto) con l’aggiunta del reato di furto con scasso. Ergastolo richiesto anche per Domenico Audino, non solo per aver partecipato all’omicidio ma anche per minaccia, danneggiamento, porto abusivo di pistola aggravato. Vincenzo Cordì, ritenuto invece il capo e promotore del gruppo di giovani, considerati vicini alla cosca Cordì ha avuto una richiesta di condanna a sedici anni, per il reato di associazione mafiosa con disponibilità di armi. Per Carmelo Dessì ne sono stati chiesti dodici, sempre per associazione mafiosa con disponibilità di armi e per Antonio Dessì otto, contestandogli i reati di minacce, danneggiamento, porto abusivo di armi e rapina aggravata. Infine l’accusa ha chiesto tre anni e sei mesi per Alessio Scali, per favoreggiamento personale aggravato.
È stata evidenziata infine, con la relativa trasmissione di atti alla Procura, oltre alle accuse mosse ai due imputati, la posizione di Domenico Audino e Antonio Dessì per il delitto di simulazione di reato, quel tentato omicidio del quale Audino affermava essere stato vittima a Bianco nel tentativo di crearsi un alibi, secondo l’accusa che lo colloca invece a Fabrizia, in un duplice omicidio. Procedura dovuta anche nei confronti di sette testimoni i cui fascicoli verranno trasmessi con l’accusa di falsa testimonianza, presunte false testimonianze da collocare soprattutto nella costruzione dell’alibi di Giuseppe
Marcianò e Salvatore Ritorto. In un’aula gremita, in attesa della richiesta dei pm, dopo la fine della requisitoria dell’accusa che, tra Mario Andrigo e Marco Colamonici ha delineato le ultime posizioni degli imputati, il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, ha sintetizzato il lavoro del suo ufficio.
La collocazione del delitto Il Procuratore ha individuato l’omicidio nel contesto politico-affaristico-mafioso, ha guardato quindi al mondo della sanità, “centro di preoccupazione”, cui dovrebbero dedicarsi gli amministratori dello Stato. Ha definito l’omicidio “di eccezionale gravità, così quando viene sacrificata una vita, ancora più grave per il ruolo della vittima, per i tempi e il luogo in cui è avvenuto. In un momento in cui si viveva un passaggio significativo per la vita democratica”.
La Calabria forse stava cambiando e questo non doveva accadere. È proprio su questo fronte che hanno mantenuto ieri la ricostruzione i due pm, Andrigo e Colamonaci, che hanno prospettato alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Olga Tarzia, a latere il collega Angelo Ambrosio, l’impianto accusatorio. Il Gruppo di Fuoco Impianto fondato soprattutto sulle singole posizioni degli imputati, sulla corrispondenza delle dichiarazioni dei due pentiti, Domenico Novella e Bruno Piccolo, sul riscontro delle dichiarazioni con i dati oggettivi
delle indagini. Per poi passare a costruire la vita del “gruppo di fuoco”, come in più occasioni è stato chiamato quel numero di giovani locresi che gravitavano intorno al bar che gestiva Piccolo e che è stato collocato dall’accusa come inserito in un contesto più grande, quello della cosca Cordì. Ad avvalorare tale tesi, ancora documenti, intercettazioni, missive che i Pm hanno elencato e portato come prove nel corso di circa cento udienze del Processo Fortugno.
Prove che secondo l’accusa, come ha avuto modo di esporre Andrigo, si basano anche sulla “potestà”, su una sorta di protezione che Cordì dava ai giovani reclusi, soprattutto a Piccolo eNovella, giovani che parlarono entrambi di armi nascoste, nella disponibilità del gruppo, di cui si parlava per raid contro i Cataldo. Novella, addirittura, ricorda il Pm, pur non avendolo mai visto, accennò
anche ad un bazooka. Gruppo di Fuoco anche secondo il collegamento avuto da Giuseppe Marcianò con Francesco Chiefari. L’accusa infatti espone le strategie che secondo l’ipotesi che avvalora la ricostruzione delle vicende legate all’omicidio porta alla dinamica delle bombe nell’ospedale, accompagnate da lettere minatorie indirizzate alla vedova Fortugno, presente in aula, e al fratello della vittima. Bombe piazzate presumibilmente da Chiefari, che in aula si avvalse della facoltà di non rispondere, atto costruito “proprio nel periodo in cui si stavano chiudendo le indagini sul delitto, periodo in cui si discuteva molto sul livello delle investigazioni”. Un modo, insomma, per ingenerare confusione, “oggettivamente si sarebbe creata” afferma il Pm Colamonaci, “una situazione di depistaggio gravissima”.
Il Pm spiega come, da testimonianze e fatti, risulti che Chiefari aveva conoscenza diretta coi Marcianò, che la bomba piazzata a Siderno, se fosse scoppiata, avrebbe ucciso persone che potevano trovarsi nel raggio di due metri. È proprio l’associazione mafiosa tra gli imputati e la disponibilità di armi, spiega il pm Andrigo, il tema che deve chiudere la requisitoria. Armi, gruppi associati per uccidere e commettere reati, il connubio tra ‘ndrangheta, politica
deviata, interessi affaristici, questo lo scenario dell’accusa in cui viene inserito l’omicidio di Francesco Fortugno, di un uomo che, insieme ad altri, voleva cambiare le cose.

Raffaella Rinaldis

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