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di ANNA ROSA MACRI’

Io lo so cosa vuol dire essere stuprata. Lo so perché sono una donna e le donne lo sanno anche se non sono state mai stuprate. Io conosco quella rabbia, quelle lacrime, quella vertigine, e il cielo che ti cade addosso e ti sprofonda con tutta la luna e le stelle; lo so perché sono una donna e a tutte le donne è capitato un giorno di essere stuprate. Io come Anna. Anna come tutte noi.
E ladri di gioia, ladri di innocenza, ladri di libertà gli uomini che la gioia, l’innocenza e la libertà la rubano a una donna. Assassini se la vittima è una bambina. Tutte le donne sono ancora un po’ bambine, e tutte le bambine sono quasi già donne, ma Anna aveva soltanto tredici anni quando ha scoperto che gli orchi non abitano dentro le favole, ma che stanno accanto a te, lungo la tua strada, o pochi passi più in là, nascosti come satiri dentro i boschi degli ulivi della Piana, maestosi come querce e misteriosi come i canti notturni dello scirocco tra le foglie. E ne aveva quattordici, Anna, di anni, e poi quindici, e poi, e poi, quanti? fino a quando?, quando ha capito che un orco, se vuole, ti mette dentro una gabbia, di violenza e di vergogna, e ti usa quando vuole, e tu sei lì, sotto gli occhi di tutti, come un uccellino spaventato che non può volare, dentro quella gabbia, e nessuno ti vede e nessuno ti ascolta. Pure se sei lì in mezzo al paese e il paese è San Martino di Taurianova, ed è cieco e sordo come Manhattan, Quinta Strada, all’ora di punta.
Se poi sei povera, e i tuoi genitori hanno tanti problemi che non si meritano di avere anche il tuo, di problema, che fai?
Decidi di stare zitta, e allora paghi, perché il silenzio è una condanna che ti rimbomba dentro l’anima come il rimorso e ti dà gli incubi la notte.
Decidi di parlare, e allora paghi due volte, perché l’accusa diventa una colpa che ti ricade addosso, e tu che sei vittima diventi misteriosamente complice, solo perché sei una donna.
Tutte Anna come lei, noi che abbiamo taciuto. Tutte Anna come lei, noi che abbiamo avuto il coraggio di parlare e come lei siamo rimaste sole. E violentate dagli insulti, dal dileggio, dalle offese. Che è peggio che essere stuprate.
Sì, le istituzioni, come si dice, sono tempestivamente intervenute: applicato protocollo del caso, visita medica eseguita, assistente sociale stilato rapporto, sussidio a famiglia da quantificare, trasferimento in casa-famiglia auspicato. E mai eseguito, perché la burocràzia, qualche volta inciampa da sola sui timbri e le carte bollate. Altre cose da fare, altri casi da risolvere. E così sia, perché la burocràzia, si sa, è senza anima.
Ecco, l’anima. E’ proprio l’anima della gente che è mancata, in questa storia.
Perché la violenza scoppia sotto ogni cielo, come una febbre che dà gli incubi e fa smarrire la ragione. E’ del genere umano, e non c’è cura, forse. E’ trasversale, attraversa classi sociali e altitudini, climi e generazioni, lauree e parentele. E’ della natura, forse, ed è terribile. Ma è più terribile ancora quando la società intorno non sa generare gli anticorpi, di giustizia, per isolare il carnefice, e di accoglienza, per tutelare la vittima. San Martino di Taurianova è un paese piccolino, gli abitanti tanti quanti quelli che stanno in un grosso condominio o in una fetta minuscola di strada di una grande città. E adesso dicono: noi non c’entriamo, non sparate sul mucchio. Noi non sapevamo, non possiamo sapere tutto. Il nostro pedigree è di buoni cristiani. E qualche volta persino di benefattori.
Tutto vero, tutto giusto, tutto comprensibile, ma tutto drammaticamente senza anima e uno si chiede perché una piccola comunità a un certo punto l’anima l’ha persa e chi gliel’ha portata via e dove l’ha persa. In nome della solidarietà – il termine è diventato ormai una bestemmia impronunciabile – si fanno concerti, si allestiscono banchetti di arance e di azalee, si inviano sms e ci si sente tutti più buoni. Ma che cos’è che ci impedisce di vedere una ragazzina dentro una gabbia che urla senza voce sotto i nostri occhi, davanti alla porta della nostra casa, sul sagrato della chiesa dove la domenica andiamo a messa, nel parcheggio del supermercato dove andiamo a fare la spesa? E dove quasi tutto possiamo comprare meno la pietà e l’indignazione. E proprio questo vuol dire avere un’anima: provare indignazione e pietà. La pietas dei nostri padri, che era amore e non era pietismo.
San Martino di Taurianova, in questa storia, come il resto della Calabria e di un’ Italia popolata non più di cittadini o di persone, ma di un popolo-pubblico, nel senso di pubblico televisivo, incapace di indignarsi e di provare pietà, che divora come i pop corn davanti alla tivvù, anche quello che succede fuori della tivvù, come se la vita fosse tutta un volgare e pruriginoso telefilm, di cui prima o poi dovrà arrivare il lieto fine. O, forse, questa è la fine. Un pubblico pagante, anche se non lo sa, un prezzo assai caro alla sua libertà e alla sua felicità. Perché quelli di San Martino di Taurianova dovrebbero indignarsi o provare pietà davanti al caso di una ragazzina violentata, se un intero Paese né pietà ha provato, per dire, per Noemi, e neppure indignazione per il suo tragico papi, un presidente del consiglio “che frequenta minorenni, e magari fossero le sue figlie”, come ha detto una donna che lo conosce assai bene? San Martino di Taurianova come l’Italia intera che assolve cose così “ad personam”, senza neanche il fastidio del processo breve. Senza nessun processo. E non diteci che la buttiamo in politica.
Da che amo la Calabria, e questo mio Paese disperato, di un amore adulto e consapevole, ho capito che se le responsabilità di ciò che accade vanno distinte, sempre, sennò è impossibile provare indignazione e pretendere giustizia, gli effetti, anche i più disastrosi, di quelle responsabilità, mi appartengono tutti, perché volano dentro l’aria che respiro, sono diluiti dentro l’acqua che bevo, sono impastati nella farina del pane che mangio. Non posso prenderne le distanze, è roba mia, mi tocca, mi spetta e mi aspetta. Essere manichei, i buoni di qua, i cattivi di là, è esercizio comodo, ma inutile, quando siamo tutti su una stessa barca e le onde sono minacciose.
Anna io non l’ho mai vista, sono all’estero mentre scrivo, e fin qui la sua immagine non è arrivata, e spero anzi che lei se la tenga ben cara e non si faccia stuprare un’altra volta dalle vita in diretta e dai pomeriggi sul cinque che sono lì in agguato, che abbia pietà per se stessa se gli altri non l’hanno avuta, e si indigni per le profferte delle sirene mediatiche, e pretenda, come parte del risarcimento, il diritto di essere dimenticata e a vivere la sua vita non da “ex stuprata”, ma da giovane donna piena di ferite e cicatrici, ma capace ancora di ridere e di commuoversi e di vivere.
Anna io non l’ho mai vista, ma me la carico sulle spalle, come ho fatto per i neri che sono andati via da Rosarno e per i bianchi che ci sono rimasti, per i veleni che ci sono e per quelli che forse, per le bombe che scoppiano e per quelle inesplose. Come sanno fare le donne di Alvaro, quelle che portano i pesi, e vanno avanti stanche e leggere, e chiedo alle altre donne di questa Calabria bella e infelice come noi, a tutte quelle che sono ancora capaci di provare pietà e di indignarsi e che sono allergiche alla solidarietà via sms, di prendersela anche loro sulle spalle questa ragazza di nome Anna, e pure San Martino di Taurianova e tutta la Calabria. Insieme, il peso è più leggero. Tra qualche giorno è l’8 marzo, e noi che non ci crediamo quasi più, nell’8 marzo, vogliamo ancora
crederci. Nel nome di Anna e nel nome di tutte noi che siamo Anna come lei e sappiamo cosa vuol dire essere stuprate.

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