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C’ERANO le parole: «Attacchi volti a delegittimare la Procura antimafia di Potenza, il Nucleo operativo dei carabinieri, il dottor Mennuti e l’ispettore Rosa». Lo scopo era quello di «screditare i predetti soggetti riconducendo agli stessi delle fughe di notizie». Fino a qui il discorso sembra il tema già visto dell’inchiesta “Toghe bis”, nata da un esposto in cui proprio una fuga di notizie su una grossa indagine in corso veniva addebitata al magistrato che se ne stava occupando, e al suo braccio destro investigativo. Ma se a Catanzaro si parla di inchieste sulla pubblica amministrazione, a Potenza il boss pentito Antonio Cossidente si è soffermato sulle attività dell’anticrimine organizzato. E si è arrivati ai fatti, benchè soltanto propositi rimandati, e poi stroncati, a quanto pare, soprattutto dagli ultimi arresti.
Tra i bersagli ci sarebbe stato il sacerdote animatore di Libera Basilicata, Don Marcello Cozzi. Stando a quanto dice il vecchio capo dei basilischi, alcuni avvocati e politici come il consigliere regionale Luigi Scaglione e il consigliere comunale di Potenza Roberto Galante, oltre ad «adoperarsi» perchè a Roma «si convincessero che la mafia non esiste», avrebbero lavorato per delegittimare il sacerdote. Mentre qualcuno all’interno della “famiglia” avrebbe iniziato a prendere in considerazione persino la soluzione estrema: «Riccardo Martucci e Saverio Riviezzi lo volevano vedere morto».
Sono le dichiarazioni su cui stanno lavorando gli inquirenti della Procura distrettuale antimafia di Potenza ormai da qualche mese. Riccardo Martucci da Venosa è uno degli storici esponenti dei basilischi, mentre Saverio Riviezzi da Pignola, il personaggio dato in maggiore ascesa dopo l’abbandono del “campo” proprio da parte di Cossidente. Il primo di recente è tornato in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare per estorsione e associazione a delinquere di stampo mafioso, mentre il secondo è ancora detenuto dal giorno del blitz per la presunta faida tra gli stessi basilischi, a febbraio del 2010.
Oltre all’odio mortale per Don Cozzi l’ultimo collaboratore della Dda lucana ha dunque indicato nel sostituto commissario Antonio Mennuti e nell’ispettore Ubaldo Rosa, del pool di investigatori della Squadra mobile più impegnati nel contrasto ai clan soprattutto nei dintorni di Potenza e nel Vulture Melfese, gli obiettivi di una vera e propria campagna di discredito, assieme ai militari del Nucleo operativo dei carabinieri di Potenza, che hanno messo a segno le operazioni più importanti degli ultimi tempi contro le attività dei basilischi nel capoluogo. Ma non solo.
Cossidente ha parlato anche di «attentati» che il fondatore della “quinta mafia”, Gino Cosentino, a sua volta collaboratore di giustizia da settembre del 2007, avrebbe avuto in mente di compiere nei confronti del pm Francesco Basentini, affiancato di recente alla Dda da un altro magistrato, Laura Triassi, e della moglie del capitano Antonio Milone, passato da un annetto dal Nucleo al Reparto operativo dei carabinieri di Potenza, sempre come comandante. Non si risulta che Cosentino avesse fatto già menzione di queste sue intenzioni davanti agli inquirenti, d’altra parte Cossidente sembra sicuro di quello che dice e avrebbe dato più di un elemento di sostegno. Il fatto stesso che il bersaglio prescelto in uno dei due casi sarebbe stato la moglie più che la persona dell’ufficiale dei carabinieri considerato scomodo per le sue inchieste, appare un dato circostanziato, che lascia pensare ad appostamenti già compiuti dagli scagnozzi del boss. Poichè si tratta comunque di progetti risalenti nel tempo è difficile stabilire come e quando siano stati abortiti.
Cosentino a sua volta sarebbe stato vittima di un finto attentato poco prima di saltare il fosso ed entrare nel programma di protezione per collaboratori di giustizia. Lo ha raccontato proprio chi lo avrebbe organizzato, ovvero Cossidente, che ha parlato della volontà «di fargli prendere uno spavento». Niente di più. In pratica a partire dal 2002 a insaputa del fondatore dei basilischi, lui e gli altri del gruppo, col sostegno dei clan calabresi, si sarebbero accordati per accantonare la sua leadership. Da allora la guida strategica della “famiglia” non sarebbe stata più nelle sue mani. E davanti ai propositi sanguinari del vecchio capo non ci sarebbe stato più nessuno disposto a trasformarli nelle azioni conseguenti.

Leo Amato

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