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“Esiste il vero amore?” Quante volte ognuno di noi se lo è chiesto. E se fosse la domanda ad essere sbagliata? Se la risposta fosse da ricercare nell’interrogativo “Quando un amore si deve considerare malato?”

Tutte le volte che si è invischiati in un rapporto di coppia, si tende, per quella propensione a far funzionare per forza le cose, a sottovalutare dei segnali che potrebbero raccontare molto della persona che si sta frequentando o che si dice di amare.

Le donne, perlopiù, hanno un’attitudine maggiore a vivere il sentimento con dedizione ed alcune anche con sacrificio. Simone da Beauvoir diceva che: “Le donne accettano la sottomissione per evitare la fatica di essere se stesse”.

Non sono esclusi neanche gli uomini, ma in misura ridotta. Cosa succede, quindi, quando durante una relazione amorosa ci si rende conto di ricevere dei segnali che nulla hanno a che fare con quello che dovrebbe essere una “nobile emozione?” Si finisce nella sfera della “tirannia affettiva” le cui conseguenze vengono raccontate come continua piaga in cancrena sulle pagine della cronaca.

La fotografia della realtà mostra un universo femminile umiliato, perseguitato, prigioniero di orchi dalla mentalità abusante. Un dispotismo sentimentale che spesse volte ha trovato e continua a trovare il suo epilogo nel femminicidio. Continuano a fare scalpore le notizie di tutte quelle donne uccise dai propri compagni.

I numeri sia per l’anno appena trascorso che per questo inizio 2021 non sono per nulla confortanti. Secondo i dati forniti dall’ultimo rapporto EURES, solo nel 2020 sono aumentate durante il lockdown – che è bene ricordare ha avuto un impatto devastante per questo problema perché ha costretto alla convivenza forzata – le telefonate al numero di emergenza istituito dal Dipartimento per le Pari opportunità, il 1522. Il 2020 è stato difficile non solo per le segnalazioni di stalking e violenza ma anche per il numero di omicidi registrati a danno delle donne, 91. L’anno in corso non è stato di certo clemente, 7 i femminicidi compiuti da gennaio fino ad ora.

Ma cosa spinge un uomo a commettere violenza sull’oggetto del proprio amore? In un’epoca così destrutturata a livello identitario si può parlare di fragilità del maschio?

Una riflessione critica permette di capire come la donna maltrattata è di fatto inserita in un compartimento stagno – da parte di chi compie gli abusi – che ha i tratti del possesso. Da qui l’identificazione con la proprietà. Quel “Lei è mia” utilizzato per tracciare una linea di demarcazione tra la relazione che si vive ed il mondo esterno. È necessario che si accendano i riflettori sulla violenza di genere. Sottolineare come ancora oggi ci siano uomini che tendono con i loro comportamenti a limitare la libertà personale di una donna e che hanno difficoltà ad accettare un rifiuto. Quel “no” che viene letto in chiave abbandonica e colpisce la ferita narcisistica del maschio. Il tutto però non è mai giustificabile perché chi compie atti efferati contro una donna non può essere inserito nella sfera della comprensione.

Chiavi di lettura per cercare di avere una qualche risposta sul perché questo fenomeno non arresta la sua corsa, arrivano su più fronti. Ci si prova ad interrogare su che cosa accade nella mente di chi compie tali barbarie. La disuguaglianza strutturale intrisa da una mentalità patriarcale, maschilista, misogina ed immatura dal punto di vista dello sviluppo di cosa sia l’affettività, sono o potrebbero essere delle risposte. Su una cosa però si è tutti ben convinti, un ruolo importante lo gioca l’educazione culturale proveniente dalla famiglia. Fin da bambini bisognerebbe portare avanti un ragionamento logico che si basa sul rispetto della donna e sul suo ruolo nella società, evidenziando come sia sbagliata quella concezione passata di subalternità che non ha risparmiato di relegare l’universo femminile nei piani bassi della società. Un’educazione culturale che dovrebbe essere insegnata anche nelle scuole, a partire dalle primarie. Divulgare l’amore nella sua forma aulica, dove preponderanti sono le parole di rispetto, cura e tenerezza. Far capire che l’intransigenza, l’ostinazione e la non accettazione perpetrati verso chi si sceglie di amare non fanno parte di questo verbo ma anzi sono da considerarsi come atteggiamenti pericolosi, invasivi e passibili di denuncia. Spiegare in maniera semplice come la mentalità arcaica di un tempo, dove la famiglia si basava su un codice gerarchico/piramidale che vedeva il maschio seduto a capotavola, sia ormai obsoleta e del tutto priva di fondamenta.

L’uomo che picchia, violenta e nel peggiore dei casi uccide una fidanzata, una moglie, una compagna, un ex compagna non agisce mai per virilità anzi in quei precisi istanti la disconferma. In questi comportamenti alla base c’è una struttura violenta che nella routine di tutti i giorni si cerca di contenere attraverso una formalità caratteriale costruita. Di fatto, però, le sue fondamenta interiori sono sabbiose. Così fragili da non riuscire a relazionarsi con l’evoluzione femminile che nel corso del tempo ha trovato e continua a trovare la sua giusta e sacrosanta collocazione nel mondo. La messa in atto di questi comportamenti rappresentano anche la non accettazione del cambiamento dei costumi della donna e della sua emancipazione sempre perché una mentalità retrograda ed insicura non ammette il loro affrancarsi economicamente, culturalmente e socialmente.

La figura maschile che porta avanti atteggiamenti oltraggiosi e brutali, oggi, se la si analizza sotto una lente di ingrandimento, appare destrutturata, monca della capacità del sano confronto. Si diventa carnefici perché incapaci di gestire la consapevole ribellione della donna a comportamenti ritenuti lesivi. Di contro, le donne oggi devono introiettare il concetto che i maltrattamenti domestici, come qualsiasi altra forma di abuso, sono denunciabili. Chiedere aiuto ai centri antiviolenza ed alle forze armate è un diritto sacrosanto, utile anche a diffondere un nuovo modo di pensare che elimina i concetti di paura e vergogna, considerati spesse volte motivazioni che inducono a nascondersi e tacere. La diffusione di un movimento di pensiero che crea un argine contro il maschio violento, potrebbe essere un punto di partenza per arginare questo problema saldamente attecchito non solo a livello nazionale. Un ruolo fondamentale viene portato avanti anche dalle istituzioni. L’aiuto dello Stato è fondamentale. Il disegno di legge che ha approvato il “Codice Rosso” a tutela delle donne vittime di abusi è stato incisivo per l’inasprimento di questi reati. Il percorso, però, per fermare questo fenomeno in continuo peggioramento è ancora lungo e non privo di ostacoli. Da sole, le leggi, non bastano.

È necessario agire all’interno dello strato più profondo della società per sperare che quei numeri infausti, ognuno con un nome di donna, una volta per tutte, si fermino.


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