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Giuseppe Conte e Mario Draghi

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Mettiamola così: siamo nell’estate del nostro impazzimento. Il capitale di fiducia, anche forzosa poco importa, che si era costituito tra forze politiche e Mario Draghi rischia di sgretolarsi e il sentiment positivo, segnale della volontà di rilanciarsi, costruito tra l’ex presidente Bce e l’opinione pubblica minaccia di sfarinarsi a causa del riaccendersi della guerriglia tra partiti e leader. Non è una sorpresa: è fisiologico che arrivati al momento cruciale delle scelte, ognuno cerchi di far valere le proprie posizioni. Il pericolo è che si intravede qualcosa di più: la voglia di interrompere una bonaccia che invece di essere usata come occasione di rigenerazione mano a mano viene considerata una camicia di forza da spezzare, costi quel che costi. Con tanti saluti all’interesse generale e all’obbligo di riformare il Paese cogliendo l’occasione irripetibile delle risorse in arrivo dalla Ue. Partiamo dalla sinistra. Il riassetto interno al M5S ha portato sul ponte di comando Giuseppe Conte, che ha potuto così riconquistare un ruolo politico allontanando lo spettro del dimenticatoio all’indomani della sua uscita da palazzo Chigi. Il prezzo tuttavia si sta rivelando assai salato.

Al di là degli scontri con Grillo e dei giudizi poco lusinghieri del Fondatore, il posizionamento di Conte non può che essere anti-draghiano. I tradizionali modi felpati non debbono trarre in inganno: l’ex avvocato del popolo siede su una polveriera e l’unico modo per disinnescarla è recuperare una modalità pentastellata poco, pochissimo di governo e molto, moltissimo di lotta. La rotta di collisione con palazzo Chigi è obbligata anche se formalmente il MoVimento continuerà a sostenere il governo. Ma se Draghi cade (ipotesi inverosimile e masochistica) o si indebolisce (eventualità concreta), il Pnrr si sfarina, i soldi di Bruxelles si vanificano e il fossato con l’Europa tornerà ad allargarsi. Davvero un pessimo servizio per il Paese.

Anche il Pd risente della situazione e del peggioramento del clima. Letta non si vuole svenare per Draghi e neppure per la sua agenda, che invece dovrebbe costituire il pilastro di una politica riformista. Il segretario dei Democratici sembra considerare l’esperienza di SuperMario un male necessario ma fortunatamente (per Letta) transeunte. Dopo si ricostituirà un confronto destra/sinistra vecchia maniera, sulla falsariga degli anni ‘90. In queste condizioni la cosa da fare è tener saldo sui principi “di sinistra” con un occhio rivolto alle giovani generazioni (legge Zan, Ius soli, voto ai sedicenni) senza perdere contatto con “il fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste”.

Anche a costo di mettere a repentaglio riforme come quella della giustizia, fondamentale per confermare la fiducia dell’Europa e la capacità dell’Italia di rispettare i patti? Magari così brutalmente no, però la tentazione c’è. Ma se il Paese fa harakiri sulle riforme, poi non resteranno che macerie. La sensazione è che una dose, neppure così trascurabile, di populismo venga considerata dal Nazareno l’atout per vincere nelle urne. Il riformismo? Bello e impossibile, almeno ai fini della conquista e tenuta del potere.

Non che a destra le cose siano migliori. Giorgia Meloni si è tirata fuori dalla grande maggioranza salvo – non si capisce se per ingenuità o imperizia – sorprendersi e/o lamentarsi di manovre che tendono ad escluderla dai benefici dello stare nella stanza dei bottoni. La crescita nei consensi registrata dai sondaggi va bene per i comizi e le comparsate tv. Ma quando il gioco si fa duro, i duri vogliono la loro parte.

Matteo Salvini si comporta come se vivesse sulle montagne russe, divertendosi un mondo. Un giorno fa mostra di senso di responsabilità e atteggiamento istituzionale, quello successivo cavalca temi divisivi vellicando la pancia dell’elettorato: suo e della coalizione di centrodestra. Il risultato finora più importante ottenuto dal governo Draghi è di aver messo in parziale sicurezza l’Italia dall’incubo della pandemia. Ma adesso che le varianti minacciano di sovvertire il senso di sollievo di tanti, Salvini preferisce impostare uno scontro sul Green Pass che non può che perdere. Perfino vari presidenti di Regione leghisti riconoscono la necessità di una misura del genere. Il Capitano (o ex?) si muove per figurare da garante degli interessi della costituency del Carroccio. Tuttavia un leader che imposta una battaglia e poi la perde non dà di sé un’immagine di forza: al contrario. Senza contare che la lotta al Covid non è né di destra né di sinistra, e che un governo che si trova di fronte alla ripresa dei contagi non può che agire tutelando l’interesse generale, non quello di categorie più o meno rilevanti, più o meno numerose.

Insomma l’estate che negli auspici, grazie alla penetrazione vaccinale a tappeto, doveva essere della ritrovata serenità e dell’implementazione delle riforme che devono modernizzare lo Stato, si avvia a diventare la stagione dell’impazzimento sostenuta dalle presunte, singole e di parte, convenienze. Non un bello spettacolo. L’elemento simbolicamente più inquietante è la possibilità che Draghi metta la fiducia sulla riforma della giustizia. Il che rappresenterebbe un discrimine, segnerebbe un prima e un dopo. Decreterebbe la fine della luna di miele, seppur obtorto collo, dei partiti con il migliore dei premier possibili. E segnerebbe l’avvio del countdown per il suo indebolimento. Quelli del tanto peggio tanto meglio sarebbero contenti. Tutti gli altri, potrebbero solo alzare gli occhi al cielo e pregare lo stellone.


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