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di FABIO AMENDOLARA
MELFI – C’è chi si dedica allo studio e riesce a laurearsi e chi si è suicidato. Chi ha tentato un omicidio, chi gioca a calcio, chi costruisce navi nelle bottiglie di vetro e chi è riuscito a evadere. Il carcere di massima sicurezza di Melfi è in cima al paese. In gergo penitenziario viene definito «carcere di terzo livello»: ovvero per detenuti pericolosi. Soprattutto calabresi. Come Vincenzo Macrì da Siderno, detto «u’ baruni», il barone. Qualche anno fa i carabinieri del Ros origliarono una sua chiacchierata. Il boss, sicuro di non essere ascoltato, nel silenzio della sua cella disse al suo fedelissimo genero, «Gratteri fici disgrazi ’nta ionica».
Gratteri è Nicola Gratteri, magistrato d’assalto della procura antimafia di Reggio Calabria. E le disgrazie di cui parlava il boss erano le operazioni antimafia che avevano decimato la sua cosca. In quell’occasione il boss decise che «u’ sangu», il sangue, doveva scorrere. Il magistrato fu salvato appena in tempo. Per lui era già pronta un’autobomba. Poi il boss è andato «al passeggio», a fare «la socialità» – così in carcere chiamano l’ora d’aria – e ha fatto amicizia. E’ questo che preoccupa gli investigatori della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Potenza. In un’annotazione inviata alla procura antimafia descrivono «la situazione degli istituti penitenziari lucani, e in specie di quello di massima sicurezza di Melfi, unico carcere della Basilicata a ospitare detenuti raggiunti da provvedimenti cautelari per reati di mafia».

L’apprendistato

«Nel corso della presente indagine – si legge nell’informativa – si è scoperto che è proprio nel carcere di Melfi che la criminalità organizzata lucana entra in contatto con esponenti di vertice di organizzazioni mafiose a carattere nazionale, dalle quali mutua le proprie strategie criminali e i programmi operativi, strutturati oltre che da traffici illeciti e azioni delittuose, anche da omicidi, intimidazioni e persino aggressioni a rappresentanti dello Stato». Anche questo è il carcere di Melfi. E’ il caso di un agente di polizia penitenziaria che ha subito un’azione intimidatoria. Si chiama Michele Patella e da quel giorno ha dovuto lasciare il suo incarico operativo per sedere dietro a una scrivania.

boss in trasferta

Ma a Melfi accade anche che un latitante della ’ndrangheta decida di consegnarsi e che pretenda di scegliere in quale cella passare i giorni della sua detenzione.
Una storia «singolare e al tempo stesso inquietante», la definisce il vicequestore aggiunto Barbara Strappato, capo della Squadra mobile, negli atti che il Quotidiano ha potuto consultare. E’ la storia di Fancesco Cusato di Siderno. Arriva a Melfi con il suo avvocato, si fa arrestare e chiede di alloggiare nella cella di Vincenzo Macrì, «u’ baruni», «scambiando – scrive il capo della Squadra mobile – il complesso penitenziario per un albergo per gite scolastiche, dove ognuno può scegliersi il compagno di stanza».

minima sicurezza

La cella del barone era un porto di mare. «Fragilità del sistema penitenziario», la chiamano gli investigatori. Con lui in cella c’era anche un altro personaggio: Alberto Luciano Franco, un grossista del mercato della droga che qualche mese prima era stato fermato a Melfi con alcuni esponenti del clan Cassotta.

Polizia preoccupata

«Va segnalata infine – si legge nell’informativa – la circostanza davvero incredibile e, per certi versi, anche pericolosa derivante dalla decisione assunta dal Dipartimento amministrazione penitenziaria di Roma di spostare l’indagato Gerardo Navazio (in carcere con l’accusa di omicidio ndr) dalla casa circondariale di Castrovillari a quella di Rossano, dove risulta ristretto da diverso tempo Angelo Di Muro, col quale vi sono evidenti ragioni di contrasto che potrebbero determinare spiacevoli conseguenze per entrambi».
f.amendolara@luedi.it

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