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di FABIO AMENDOLARA
POTENZA – Negli archivi dei giornali ci sono storie di Ferrari sfasciate, di jet
pilotati a bassa quota, di locali notturni della Costa Smeralda e di
Saint-Moritz, di impennate e turbolenze di ogni tipo sfociate nella
tragedia dell’isola di Cavallo, in Corsica: una sera dell’agosto del
1978 un colpo partito dalla carabina del principe impegnato in un
litigio con il playboy Nick Pende colpì il giovane tedesco Dirk Hammer
che stava dormendo in una barca attraccata lì vicino. Hammer morì dopo
cento giorni di agonia. Vittorio Emanuele trascorse un po’ di tempo in
carcere. Fu la sua prima volta col pigiama a righe. Vi fu uno
strascico di polemiche per un sospetto di pressioni sulla magistratura
francese. Poi Victor fu completamente assorbito dai suoi affari. Ma
con qualche ombra che i suoi detrattori ancora ricordano: i presunti e
mai dimostrati commerci di armi, i rapporti con l’ex scià dell’Iran,
quelli con la P2 e il venerabile Licio Gelli («Una persona simpatica,
un buon uomo col quale si possono fare degli affari», disse il
principe). Tutte vicende che lo hanno reso poco simpatico a quei
monarchici che, da allora, gli preferiscono il cugino Amedeo duca
d’Aosta.
Poi, mentre a Savoia di Lucania, poche anime al confine con la
Campania, due comitati si scontrano sul rientro dei resti
dell’anarchico che nel 1878 tentò di uccidere Umberto primo con un
coltellino da due soldi e per quello fu decapitato e dato in pasto a
Cesare Lombroso che conservò il suo cervello sotto formalina, una Fiat
Punto grigia che in gergo i poliziotti chiamano «undercover» arriva a
Potenza. I fotografi sono già davanti al carcere perché l’agenzia Ansa
qualche ora prima ha battuto una notizia flash: «Vittorio Emanuele in
manette. E’ il re dei videopoker». Questa è l’accusa sostenuta da un
magistrato che ha già fatto parlare l’Italia per aver arrestato, un
paio d’anni prima, qualche amico del presidente Francesco Cossiga:
Henry John Woodcock.
E’ lui che ha raccolto migliaia e migliaia di pagine di intercettazioni su Vittorio Emanuele, le ha catalogate e ha detto al suo capo: «Il principe è un fetentone, lo dobbiamo arrestare». E così è stato. L’appuntamento tra il pm anglonapoletano e l’indagato di sangue blu è all’interrogatorio di garanzia. Il reale è già in cella da qualche settimana. E alle dieci del mattino si
presenta nella sala degli interrogatori. «Buon giorno signori giudici»: Vittorio Emanuele di Savoia si scusa per non aver potuto indossare la giacca del suo elegante gessato blu. Ha la camicia bianca con lo stemma del suo casato sbottonata sul collo. E’ sudato. Come tutti. Fa un caldo torrido a Potenza quell’estate del 2006.
La sala degli interrogatori è piena: ci sono gli avvocati, i loro assistenti,
le stenografe, un paio di agenti della polizia penitenziaria e i due magistrati: Woodcock e il gip Alberto Iannuzzi. E’ lui che cerca di mettere a suo
agio Vittorio Emanuele. Gli si rivolge chiamandolo «dottor Savoia». Si
aspetta scena muta dall’indagato più nobile d’Italia. «Intende rispondere alle contestazioni che sono contenute in questa ordinanza di custodia cautelare?». E’ la domanda di rito. Come quella sui soprannomi o sulle cariche pubbliche. Vanno fatte a ogni interrogatorio.
Vittorio Emanuele spiazza tutti. Anche i suoi avvocati. Uno di loro, infatti,
rinuncia al mandato: l’avvocato Piervito Bardi. Per discrezione dirà che cedeva il posto al collega Franco Coppi che a Potenza, però, nessuno ha poi mai visto.
Il principe prende fiato e coraggio. E verbalizza: «Mi hanno raggirato. Mi hanno usato come una carta di credito. Voglio ristabilire la verità. Ho deciso di collaborare con la giustizia perché tutto sia chiarito». Assume una posa che alla fine l’avvocato e amico Lodovico Isolabella definirà «dignitosa». La scelta del
principe è frutto di «sofferta riflessione». Uno scatto d’orgoglio. La voglia di prendere le distanza da quella banda che i giudici chiamano «associazione a delinquere». Di spiegare che è vittima di un raggiro. Tra una domanda e l’altra butta giù cinque mezze minerali. Poi il gip gli chiede delle «porcelle» di cui parlava al cellulare. Il principe lascia cadere il bicchiere. L’acqua si rovescia. Lui cerca di asciugarla. Il giudice è stupito. Ma non è una dichiarazione di tregua quella. Al contrario. Il magistrato insiste: «Parliamo dei soldi. Di quella busta che le hanno consegnato a villa d’Este». E che nelle foto il principe si infila nella tasca interna della giacca. «Si riconosce?», chiede il gip. Lui conferma. «Quanti soldi c’erano dentro? 20 mila?». Lui si
arrabbia: «Sono donazioni per l’ordine Mauriziano». Il giudice non si
arrende. Ritorna sulle ragazze che lo staff gli procurava: «Spero che
queste storie non vengano pubblicate dai giornali», implora il
principe. Troppo tardi. Le storielle del Savoiagate riempiono già quotidiani e settimanali quando il reale lascia il carcere. Riesce a prendere fiato per un anno. In procura a Potenza hanno addentato un altro caso che fa parlare: Vallettopoli. Poi Woodcock si ricorda del principe: chiede e ottiene il suo rinvio a giudizio. Ma cambiano tante cose. Il pm va via. Lascia Potenza per la sua Napoli. Il principe ha altri avvocati: Francesco Murgia e Gianfranco Robilotta. Chiedono in aula che il processo venga trasferito a Roma. I giudici si chiudono in camera di consiglio per un’oretta. Poi si liberano del fascicolo. E
del processo. Decideranno i colleghi della sezione penale del Tribunale di Roma se il principe è colpevole o innocente. Lui, contento, commenta la notizia come se fosse già stato assolto e ringrazia gli italiani che gli hanno dato «fiducia e coraggio».
f.amendolara@luedi.it

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