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POTENZA – Quattro mesi in carcere più tre agli arresti domiciliari, da agente della polizia penitenziaria svegliato nel cuore della notte dal blitz dell’operazione “Turris”, il 18 maggio del 1996. Finirono in manette in 51 tra il suo paese e gli altri centri del metapontino. Per la Dda facevano parte di un clan mafioso armato fino ai denti, specializzato nello spaccio di droga e nelle estorsioni. Dieci anni e duecento udienze dopo sarebbero stati condannati soltanto in dieci, a pene complessive per 34 anni di reclusione, e di mafia nemmeno l’ombra. Il tursitano Palmino Di Scipio è stato reintegrato nelle fiamme azzurre. Ma per essere risarcito ha dovuto aspettarne altri 5.
45mila euro. È quanto è riuscito a strappare il suo legale, Nicola Cataldo, che lo ha assistito in una lunga peripezia che si è trascinata fino alla Corte di cassazione. È servito che gli ermellini del Palazzaccio annullassero il primo “niet” della Corte d’appello di Potenza per costringerla a rivedere le sue posizioni. La sentenza è di febbraio ma soltanto nei giorni scorsi il Ministero dell’economia ha disposto il pagamento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione. L’operazione “Turris” è un altro di quei casi giudiziari finiti nel calderone della prima “Toghe lucane”. Tra gli investigatori c’è chi ha raccontato all’allora pm De Magistris delle iniziative disciplinari e penali subite l’accaduto, quando è venuto a galla l’abbaglio che in tanti avevano preso, inclusi i magistrati che avevano condotto l’indagine. Ritorsioni di un comitato d’affari composto da giudici, avvocati, imprenditori e politici corrotti è quanto ipotizzò l’attuale sindaco di Napoli. Una svista bella e buona per tutti gli altri, inclusi i membri della Suprema corte.
«Di Scipio era stato arrestato – spiega l’avvocato Cataldo – sulla base delle accuse di un noto collaboratore di giustizia, Giacubbo Carmelo, per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. Poi la custodia in carcere veniva sostituita con gli arresti domiciliari soltanto a dicembre del 1996 gli arresti domiciliari venivano sostituiti con l’obbligo di dimora. Nel merito il processo veniva definito con sentenza del 3 divembre del 2006, con la quale Di Scipio veniva assolto».
Per i giudici del collegio del Tribunale di Matera le prove sul suo conto erano insufficienti: le dichiarazioni di Giacubbo sui loro viaggi in Giulietta a Matera e Pisticci per rifornirsi di “fumo” non hanno trovato alcun riscontro, come il fatto che lui stesso ne sarebbe stato un consumatore e ne avrebbe ceduto varie dosi a una persona che frequentava. Non poteva nemmeno ritenersi accertata una frequentazione assidua tra Giacubbo e Di Scipio. Che restava? Quella persona che frequentava si scoprì subito che era il fidanzato della sorella. Era capitato che andassero assieme in un bar gestito da uno di quei dieci che alla fine sarebbero stati condannati. Il fratello di Di Scipio era un agente di polizia in servizio a Scanzano. Allora?
Per la Corte di Cassazione è chiaro: «Le frequentazioni ambigue ossia quelle che si prestano ad essere interpretate come indizi di complicità», solo quando «non sono giustificate da rapporti di parentela, e sono poste in essere con la consapevolezza che si tratta di soggetti coinvolti in traffici illeciti» possono intendersi come una colpa talmente grave da giustificare l’arresto di una persona innocente. Se all’epoca il fatto Di Scipio fosse un agente della polizia penitenziaria, e suo fratello un agente di polizia in servizio a a Scanzano, era stato considerato addirittura come un’indice maggiore di pericolosità, perchè chissà che cosa avrebbero potuto fare assieme quei due, adesso tocca risarcire proprio il clamore suscitato dall’aver travisato la situazione. Perciò 45mila euro. Ma c’è dell’altro.
Per dieci anni, dal momento dell’arresto al giorno dell’assoluzione, Di Scipio è stato sospeso dalla polizia penitenziaria e lasciato a far nulla incassando metà del suo stipendio senza scatti d’anzianità e tutto il resto. Quando si è scoperto che era innocente il corpo lo ha reintegrato e gli è stata restituita la metà dello stipendio che gli era stata negata maggiorata degli scatti d’anzianità bloccati. Un’altra bella sommetta assieme senza aver fatto nulla per l’ammistrazione, a cui andrebbero sommate anche le spese legali e processuali. Tutto a carico del cittadino per una disfunzione della macchina della giustizia.

Leo Amato

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