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di MARIO CAMPANELLA
Tra pochi giorni il collegio giudicante del Tribunale di Cosenza dovrà decidere se Padre Fedele Bisceglia, declassato a don Francesco dopo la triste estromissione dalla casa di Assisi, ha violentato davvero suor T e merita una dura condanna oppure se egli è stato vittima di un errore giudiziario marchiano. Qualunque sia la decisione, e specie se questa collimerà con le richieste dell’accusa, si dovranno attendere gli altri due gradi di giudizio per stabilire la realtà complessa di una vicenda che testimonia per molti aspetti la lunga fase di decadimento vissuta dalla Chiesa cosentina, alle prese con la vergognosa vicenda di Serra Aiello e con un paio di presuli pedofili. Penso sia legittimo manifestare un’opinione dalla lettura documentale delle carte essendo stato un processo a porte chiuse, giustamente confinato nel silenzio della discrezione per i risvolti delicati, e quindi un dibattimento reggimentato e non pienamente fruibile per un osservatorio che volesse confrontare gli umori, le parole, i toni delle parti. Di sicuro, però, c’è già un proscritto che difficilmente potrà godere di una restituito ad integrum, nemmeno se dovesse essere assolto, ed è proprio l’imputato. Arrivato a godere di una visibilità straordinaria per aver saputo cavalcare la tigre del calcio e ritagliarsi il ruolo del frate pecoreccio e boccaccesco, Padre Fedele paga salato il conto della sua ipertrofia narcisistica, a tratti anche fastidiosa ed urtante. Un ostentatore di esibizionismo a volte incontinente e devastante che, per il solo fatto di avere costruito importanti e prestigiose pagine di solidarietà, si sentiva in diritto di intervenire su tutto, con una prosopopea tanto inopportuna quanto fuori luogo. Stralciare questa immagine del monaco ultras dal processo non è possibile. Perché emerge il sospetto che Padre Fedele abbia dovuto dare il fianco alla sua lombrosiana colpevolezza etica in nome di una colpevolezza penale che, onestamente, non si vede. Chiunque commenti le sue vicissitudini, nelle strade come nelle parrocchie, non manca di sottolineare che egli mostrava disinvoltura con il mondo femminile, come se il voto di castità violato fosse un reato e le aule giudiziarie si tramutassero in un Sant’Uffizio moderno. Chi difende più questo personaggio privato di ogni diritto e morso dall’arsura di non poter dire messa da cinque anni? Nell’Italia del XXV luglio gli amici potenti si sono dissolti, anche quelli che riempivano di soldi le sue generose ma spesso disordinate idee di solidarietà. È stato accusato di avere messo incinta una ragazza nigeriana che (si scoprì subito) venne in Italia la prima volta al 4° mese di gravidanza. Porta con sé la macchia di un sospetto che si annacqua dinanzi all’evidenza, quando emerge che la suora gli telefonava spesso dopo la presunta violenza e che trascorsero mesi prima che ella denunciasse il (sempre presunto) misfatto o, ancora, che le celle telefoniche lo davano in un altro luogo il giorno in cui avrebbe commesso il fatto. In 25 anni di divismo urbano e di popolarità, ha raccolto miliardi delle vecchie lire rimanendo povero e senza una moneta in tasca (se si esclude la pensione di docente che percepisce ) in una Chiesa in cui il vecchio vescovo proteggeva e sosteneva un sacerdote che viveva tra mobili di lusso ed orologi di valore sulle spalle di derelitti abbandonati a se stessi. Ha perso il saio, la struttura costruita con la temerarietà della sua vigorosa pazzia , un posto nella confraternita. Ma per essere condannato c’è bisogno che si acclari la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Nei giorni dell’arresto e dell’abbandono l’Oasi era stata descritta come un postribolo nel quale egli si muoveva da incontrastato rais. Tutte stucchevole e pittoresche elucubrazioni svanite alla prova dei fatti. Chi lo giudicherà sappia acquisire la consapevolezza che padre Fedele è così: l’emblema dell’antipatia viscerale, il frate dolciniano del Nome della Rosa che pascolava tra i piaceri dopo avere invocato in gioventù l’ardore della rivoluzione. Ma nel processo si giudicano i fatti e non l’etica. Quello, semmai, è il giudizio di Dio.

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