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di EMILIO TARDITI
La recente intervista che l’attento direttore del Quotidiano della Calabria Matteo Cosenza, ha realizzato con Saverio Strati, ha portato a conoscenza dei lettori il pensiero dello scrittore calabrese di Sant’ Agata del Bianco, da diversi decenni residente in Toscana, a Scandicci, vicino Firenze. Per quanto sorprendenti le parole di Strati possano sembrare, esse sono pietre gettate in faccia. Chi vuole raccoglierle le raccolga, e se fanno male, pazienza. Sono probabilmente meritate. Solo che, in questo caso, le responsabilità sono oggettive e non soggettive, collettive e non individuali, storiche e non dell’Uomo in quanto tale, ambientali e non personali.
Quasi che a soffocare il calabrese sia il respiro stesso della terra in cui è nato, privo di quella ossigenazione culturale che sinora gli ha impedito di emanciparsi dalle angustie della subordinazione, da un parte, e dall’inerzia e dall’apatia dall’altra. Insomma, una iattura ed una maledizione. Ma per chi ha avuto una certa frequentazione con le opere e gli scritti di Strati, per chi in qualche modo ha seguito la sua parabola esistenziale, e il suo modo di essere e sentirsi scrittore, dal dopoguerra ad oggi, le sue parole non dovrebbero sorprendere più di tanto. Condivisibili o meno, le sue valutazioni sulla Calabria e i calabresi sono rimaste invariate. Il suo rapporto con la Calabria era ed è conflittuale, segnato da un amore appassionato e tragico allo stesso tempo. Nel pessimismo di Strati non c’è spazio per facili illusioni.
La realtà gli ha dimostrato quanto essa possa essere dolorosa e contraddittoria. E gli ha fatto capire quanto sia più difficile rispetto ad altre questa realtà calabrese, e quanta forza morale occorra per superare una condizione umana e materiale umiliante e precaria.
In questi giorni ho ritrovato un’intervista che Strati nel 1979 aveva rilasciato su “Famiglia Cristiana” a Giorgio De Rienzo, nella quale, allora come oggi, le sue idee sono perfettamente coerenti e di una onestà intellettuale che gli fa onore. In quell’intervista, lo scrittore disse con sincerità quello che pensava della Calabria e dei calabresi. Disse cose che ancora oggi purtroppo corrispondono a verità. Perché ci sono situazioni oggettive che da sempre si trascinano nella trascuratezza, in una sciatteria pubblica e privata che continua a nuocerci. Ci sono tratti del carattere dei calabresi terribilmente immutabili, di cui Strati parla, come la gelosia, la «puntigliosità», l’orgoglio, una certa «violenza istintiva », che, in alcuni casi, degenera anche in drammatiche faide. E non c’era (e non c’è), a suo modo di vedere, neanche molta solidarietà soprattutto tra gli scrittori, né spirito di aggregazione tra la gente comune. C’è piuttosto da sempre uno «spirito feroce di autodistruzione». Non esiste qui, ad esempio, nemmeno quell’affiatamento che si ritriva invece tra i siciliani ed i napoletani, anch’essi cittadini meridionali. Anche la nostra natura, così bella ed aspra, selvaggia e desolata con i suoi cangianti paesaggi, incanta ed avvilisce nello stesso tempo. Per Strati infatti, le campagne incolte e spopolate danno una sensazione di sfascio, «che è dell’uomo, non della natura».
Lo scrittore di Sant’Agata del Bianco ha fatto rilevare senza ipocrisie cose che ci diciamo ogni giorno in privato, ma che dette in pubblico per alcuni non debbono essere assolutamente pronunciate. Strati, parlando di «tragica mancanza di solidarietà», «esasperato individualismo», imprenditori dediti al «proprio tornaconto», mentalità «guasta di lassismo», ricerca di protezioni altolocate, assenza di organizzazione culturale, presentava una situazione sociale calabrese al limite della sopportabilità, nonostante nei primi tre decenni del secondo dopoguerra le condizioni generali della popolazione fossero per fortuna migliorate. Strati urlava quel grido d’angoscia per «interrompere questo lungo,
mortale sonno calabrese». E quasi a voler mitigare il suo pessimismo, contro ogni tendenziosa interpretazione delle sue parole, affermava: «Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro di sé ancora quelle tracce che conserva dell’antica civiltà della Magna Grecia».
Strati, che negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso aveva visto la Calabria abbandonata dai giovani più «attivi, preparati e coraggiosi», che emigrarono per sfuggire alla miseria, aveva intuito che, il riscatto del Sud poteva compiersi solo «dal di dentro, non dal di fuori» cercando «dentro di sé le forze» per potersi salvare.
Quell’intervista di Strati su Famiglia Cristiana suscitò qualche giorno dopo dure critiche da parte di Fortunato Seminara, un altro arguto scrittore calabrese che dalle colonne del Giornale di Calabria, lo accusò di essere un «piccolo borghese, nostalgico e qualunquista», che aveva formulato affrettatamente giudizi, da Seminara ritenuti ingiusti, sulla sua terra natale, tali da suscitare per lo meno meraviglia. In fondo, a giudizio di quest’ultimo, non era giusto prendersela con la Calabria e i calabresi, ma le responsabilità andadavno ricercate piuttosto nella «inettitudine di una classe dirigente locale e la secolare inadempienza dei governi succedutisi in Italia dopo l’Unità».
Per lo scrittore di Maropati gelosia, individualismo, lassismo e tanti altri vizi calabresi, non spiegavano da soli i ritardi della nostra terra.
Ma ci sembra che l’ironia che Seminara fece sulla «gelosia», che Strati riconosce
essere un tratto presente nei calabresi, sia stata esagerata e inopportuna, che abbia negato un tratto tipico e innegabile del carattere calabro. Saverio Strati, in effetti, senza disconoscere quanto di buono era stato fatto in Calabria, con dolore e sofferta partecipazione aveva invece rilevato come i sentimenti egoistici, bassi e malvagi nell’uomo possano agire negativamente, fino a condizionarlo fortemente nei suoi comportamenti e a limitarlo nelle sue azioni.

1|8]Nella foto: lo scrittore Fortunato Seminara

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