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di ROCCO PEZZANO

LO STOCCAGGIO di gas è un business. Di dimensioni planetarie. La questione della sicurezza nazionale non è la priorità nell’Unione europea. Lo spiega Andrea Piglia, ingegnere e direttore del Centro studi del Safe, associazione no profit la cui sigla sta per Sostenibilità Ambientale Fonti Energetiche.
Piglia è un’autorità nel settore dell’energia e in particolare del gas, autore di numerosi volumi.
La sua voce è particolarmente interessante per capire cosa significhi, per la Basilicata, il progetto della Geogastock di megadeposito di gas in Valbasento. La struttura verrebbe gestita da un’azienda italiana controllata dalla società russa Renova.
L’Italia ha una legislazione particolare nel settore gas. A differenza di tutti gli altri 26 Paesi comunitari, spiega Piglia, solo l’Italia per legge ha una scorta obbligata di gas. Su tredici miliardi di metri cubi stoccabili, quasi cinque sono le scorte d’obbligo.

AFFARI
Da dove nasce il business? Dal fatto che le infrastrutture non sono granché. Prendiamo l’Olanda come pietra di paragone: c’è produzione locale, un gasdotto che viene dalla Russia, due in partenza per la Gran Bretagna e per il Sud dell’Europa. Un sistema di linee che funziona.
Se in Italia c’è bisogno di gas dalla Russia, in attesa che arrivi – in assenza di una rete migliore – me le devo far prestare dallo stoccaggio. Che diventa quindi una specie di banca. Chi ne ha bisogno paga ciò che prende. Chi vuole venderlo o comunque conservarlo, paga per il servizio di deposito.
In effetti, di centri di stoccaggio non ce ne sono molti in Europa: sono presenti in Inghilterra, in Olanda. A Baumgarten c’è un hub, ossia uno snodo centrale: da lì viene smistato qualcosa come 47 miliardi di metri cubi di gas per molte nazioni. La Gazprom, “mostro” industriale russo, forse l’azienda energetica più grande del mondo e sicuramente la più potente, ne detiene il 51 per cento.
I russi, fra qualche anno, saranno probabilmente gli unici al mondo detentori di gas insieme ad Algeria e Libia.

IMPERIALISTI
Per chi detiene e sempre di più deterrà il gas, un punto qualunque dell’Europa diventa utile per piazzarci un deposito di gas. E’ una politica che Piglia definisce di «imperialismo del gas»: controllare le vie d’accesso d’Europa e gli stoccaggi.
L’unico limite alla costruzione di un deposito è che vi sia la possibilità tecnica. Non tutti i pozzi abbandonati, ad esempio, vanno bene. Quelli di Grottole e Ferrandina evidentemente hanno tutte le caratteristiche giuste.
Quella lucana non è nemmeno l’opera più grande programmata in Italia. Ce n’è una a Ravenna da tre miliardi di metri cubi (in fase di Valutazione d’impatto ambientale), un’altra ad Alfonsine (sempre nel Ravennate) e una terza a Bardolino, nel territorio di Verona.
Ma possono esserci ricadute sull’economia e l’occupazione lucana? Piglia fa capire che è inutile farsi illusioni: «Forse qualche investimento locale, qualche posto. Nulla di importante». D’altronde, la storia delle strutture in Val Padana parla di nessuna attività collaterale nata, di nessun beneficio.
Un’altra domanda: i gestori dei megadepositi, usati dunque come un garage multipiano per chi voglia conservare e vendere gas, vi stipano anche gas proprio?

LIBERALIZZAZIONE
PER MODO DI DIRE
«E’ una questione fondamentale – risponde Piglia – che si lega, in Italia, alla liberalizzazione del settore: per legge è vietato a qualsiasi operatore essere due parti consecutive della filiera. Se ho il gas, non posso raffinarlo. Se lo raffino, non posso venderlo».
Osservazione spontanea: e l’Eni che fa tutto? «Ecco: l’Eni fa tutto – conferma l’ingegnere – C’è un’enorme polemica in giro sul fatto che l’Eni, agendo come fa, condizioni il mercato e possa più facilmente fare le scarpe alla concorrenza. Il mercato elettrico è stato liberalizzato in maniera più lineare. Ma nel gas bisogna considerare altri fattori, altri aspetti. Ad esempio: alcuni mesi fa l’Italia ha avuto i suoi problemi con il gas. Chi è andato a sedersi ai tavoli giusti e a cavare le castagne dal fuoco con l’Ucraina? L’Eni. Vale la pena distruggere il campione nazionale del settore? Non possiamo mandare in giro un pigmeo. Altre aziende europee, benché importanti, non sono state nemmeno ricevute».
Una questione di grande complessità. «E non esiste una politica comune in Europa – aggiunge Piglia – Bisogna creare un mercato interconnesso. Ma davvero. Allo stato attuale delle cose, c’è un problema di vulnerabilità notevole».
E l’Italia è fra le nazioni più vulnerabili. «Prima estraevamo 20 miliardi di metri cubi di gas – specifica l’esponente della Safe – oggi ne facciamo dieci. Scenderanno presto a cinque. Ma ne usiamo più del Regno Unito. Che però se lo produce in casa. Noi siamo dipendenti dall’estero per l’85 per cento del gas consumato». La soluzione? «Ampliare le fonti. Non solo quelle fossili – risponde – anche se spesso si creano allarmi inesistenti. Prendiamo il carbone…».
Beh, se c’è una cosa su cui tutti sembrano d’accordo è che il carbone sia sporco. «Se si pensa a quello di 40 anni fa – dice Piglia – allora sicuramente era brutto, sporco e cattivo. Ma se si va a Civitavecchia ci si può accorgere di un’altra realtà: innanzitutto il carbone non lo si vede proprio. Poi le emissioni inquinanti vengono tutte catturate. Si riesce anche a produrre del cartongesso».

IN MEDIO
STAT… NUCLEARE
Piglia ha idee sue sulle questioni energetiche. Ad esempio, sul nucleare non si schiera con quelle che sembrano le uniche posizioni possibili oggi, gli entusiasti sostenitori e gli acerrimi nemici, ma mantiene una sua medietà: «Mi piace molto, il nucleare, ma ho molte perplessità basate sull’assenza, a tutt’oggi, di una soluzione vera al problema delle scorie ad alta intensità».
Piglia assicura di amare molto anche le energie rinnovabili. Ma di non nutrire molta fiducia, allo stadio tecnologico attuale, nelle possibilità che offrono. «Prendiamo il fotovoltaico – spiega – Oggi ha una resa del 10 per cento. Pochissimo. Peraltro produce corrente a 12 volt e anche continua. Quella che si usa è a 220 volt ed è alternata. La trasformazione assorbe quasi tutta l’energia. All’università di Stanford, negli Stati Uniti, stanno studiando un tipo di solare che, sfruttando materiali diversi dal silicio, rende il 40 o addirittura il 50 per cento. Beh, in quel caso cambierebbe tutto. Ma oggi è poca cosa».
E l’eolico? «E’ bello e pulito. Ma onestamente è brutto da vedere. Certo, la Danimarca ne è piena, la Norvegia pure. Ma la Norvegia ricava energia anche dalle maree». Un altro mondo. «Sì. Lo stato italiano ha fatto uno studio, relativo agli obiettivi del protocollo di Kyoto, che dimostra come con le energie alternative non si può arrivare a più del 15 per cento della produzione totale».
La Basilicata dà all’Italia molto petrolio? Cosa ne dice Piglia? «Si può solo dire: grazie, Basilicata – assicura l’ingegnere – Nel 2007 ha prodotto il 74 % del greggio estratto e il 17 % del gas. Ci sono riserve importanti, come da nessuna parte d’Italia, nonostante le ricerche effettuate dappertutto. Il problema è che la geologia è complicata».

PEACE AND OIL
Piglia non crede che possano nascere guerre sull’energia: sulla terra di risorse, dice, ce ne sono in abbondanza. Il temuto “peak oil”, il punto dal quale le estrazioni di petrolio diminuiranno irrimediabilmente, è uno spauracchio da quasi quarant’anni. «Ma fino ad ora – sostiene – il petrolio non è mai mancato. Anzi, con le tecnologie odierne si può estrarre da punti prima impensabili. Si può trivellare in orizzontale. Si può estrarre olio dalle sabbie bituminose e dagli scisti. Solo in Canada, dalle sabbie, si tirano fuori un milione e duecentomila barili al giorno. L’equivalente di quanto consumiamo in Italia».
Sì, ma l’ambiente ne viene devastato. «E’ vero – ammette Piglia – ed è per questo che bisogna trovare un modo per ovviare a questi problemi. Ma le guerre sull’energia, mi creda, sono solo sciocchezze».
Niente guerre. Il mare dell’energia è solo business. E la Basilicata vi naviga sopra. Il problema è chi sia al timone.
r.pezzano@luedi.it

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