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di LUIGI M.LOMBARDI SATRIANI
L’ipocrisia e l’omaggio che il vizio rende alla virtù; questa frase apparentemente paradossale mi è tornata più volte in mente a proposito delle recentissime polemiche circa la partecipazione alle celebrazioni del 25 aprile di uomini politici prodighi negli anni passati della propria clamorosa assenza e di dichiarazioni sprezzanti o irridenti. Non mi soffermerò su questi aspetti, anche perché nei giorni scorsi molto si è discusso al riguardo e mi limiterò a notare soltanto che sabato scorso è stato celebrato in tutto il paese la Resistenza e l’anniversario della Liberazione d’Italia dai nazi-fascisti.
Che tutti (o quasi), autorità politiche e cittadini, celebriamo tali valori è a mio avviso estremamente positivo, com’è estremamente positivo che tali valori risultino, ormai condivisi, almeno formalmente. Eppure, con il passare degli anni si avverte sempre più un sapore di ripetizione meccanica, di un rituale, che può apparire a molti sempre più stanco, sempre meno persuasivo e aggregante.
Un segno inquietante in questa direzione è dato dall’atteggiamento di sostanziale disinteresse da parte delle più giovani generazioni verso questo passato che pure
ha segnato tragicamente la nostra storia. Tale disinteresse è emerso ad esempio da numerose interviste trasmesse in questi giorni dai media e dalla nostra stessa esperienza diretta. Dovremo riflettere a lungo su tutto questo, sia per indagarne
le ragioni, sia per porci il problema di rendere più persuasiva e coinvolgente la riaffermazione dei principi e dei valori che furono propri di questo altissimo
momento della storia italiana.
Sarà necessario interrogarsi sugli attuali linguaggi e modalità comunicative maggiormente presenti, specie negli ambiti giovanili, anche per evitare che sia ancora più approfondito il solco che in questo momento separa i più giovani dalle generazioni di adulti e anziani.
Va anche notato che in questi anni si è verificata nella nostra società una vera e propria confisca della memoria, per cui tutto ciò che appare comunque connesso al passato viene associato al vecchio, al superato, al polveroso e, quindi, al noioso. Si tratta delle “nuove parolacce”; in epoca di liberazione sessuale (molto più terminologica che reale) e di detabuizzazione linguistica (per cui si
ritiene di dover mescolare nel linguaggio quotidiano un buon numero di parole relative agli organi sessuali e al loro uso) vecchio e gli altri termini a esso connessi risultano insulti o quanto meno repellenti.
Ciò è del tutto omogeneo all’assassinio della memoria perpetrato da anni nella nostra prevalente disattenzione. Tale assassinio non è, certo, frutto di malvagità
individuale, ma rientra in un progetto politico complessivo secondo il quale il dominio è infinitamente più agevole su masse inconsapevoli che su moltitudini
pensanti. Ci ritroviamo così dinanzi a un notevole paradosso: mai come adesso la memoria è ufficialmente svalutata e mai come adesso alla memoria viene riconosciuto un forte valore fondativo. Non è un caso che una forza politica che governa attualmente in Italia abbia inventato, per creare vincoli aggreganti, un improbabile passato celtico, abbia elaborato complessi rituali fluviali (le ampolline dell’acqua del Po), abbia utilizzato oggetti, simboli e colori (croci uncinate, popoli padani, l’innocente colore verde caricato di ipervalore identitario) e così via. Evidentemente, è talmente forte la convinzione della forza del passato, che quando non c’è lo si inventa e lo si utilizza con assoluta spregiudicatezza.
Anche il partito berlusconiano, che pur esalta il proprio “nuovo” messaggio, sta costruendo un momento mitico di fondazione (il discorso del “predellino”, la figura del leader carismatico, tanto più eccelso quanto più associabile a eroi e padri fondatori del passato (si tratti di Giulio Cesare o di Alcide De Gasperi o
Don Luigi Sturzo). Del resto, niente di nuovo sotto il sole. Anche il fascismo,
una volta giunto al potere e svuotate le istituzioni democratiche, ritenne necessario inventarsi il proprio passato andandolo a ritrovare nell’antica Roma, da cui prese, con disinvoltura analoga a quelle sin qui ricordate, aquile, labari, termini, slogan e così via.
Spesso, dunque, è stata piegata all’invenzione del passato. Attraverso la memoria si può acquisire criticamente il proprio passato, operazione indispensabile per vivere in piena consapevolezza il presente, nel quale elaborare le linee per il proprio irrinunciabile futuro. La memoria è essenziale, quindi, alla nostra dignità di soggetti. La società è pianta, per vivere ha bisogno di radici; la memoria è radici. E che la memoria è vita; soltanto essa può rafforzare e mantenere senso di appartenenza, identità; soltanto essa può sorreggere la
nostra tensione etico-politica, la nostra progettualità, il nostro impegno. Nel Museo di via Tasso a Roma, dove vennero torturati sistematicamente i prigionieri dei nazisti, campeggia un manifesto con le scritte: “no alla tortura”, “mai più
una via Tasso”. Ma perché non ritorni la tortura, perché non si ripeta mai più una via Tasso abbiamo assoluto bisogno di memoria. Mi sembra significativo che proprio in Calabria in secoli lontani venne ripetuto – come ammonisce la già ricordata in questa rubrica, la laminetta orfica ritrovata a Hipponion (l’odierna Vibo Valentia) -, l’invito a non bere al Lete, fiume della dimenticanza, a placare invece la nostra sete bevendo da Mnemosune, fontana di Memoria.

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