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di ROBERTO LOSSO
Nella circoscrizione del Sud s’avanza un'”altra” Italia. Può anche non piacere. Ma è molto diversa e più marcata di quella che emerge dal riepilogo generale del voto per le europee. Nel mare magnum delle percentuali nazionali, infatti, tutto sembra più coerente con l’italica tendenza a lasciare ampi margini nell’analisi del voto, consentendo, sia pure con qualche paradossale forzatura, ai principali antagonisti la possibilità di rinviare al prossimo turno elettorale lo scontro politico decisivo. Anche questa volta, in fondo, è così. I margini ci sono. Almeno sulla carta. Il Pd (26,1%), infatti, ritiene di essere nella scia del Pdl (35,3%). Mentre il Pdl, elaborando gli stessi dati, si considera in fuga, conservando un significato vantaggio sul Pd (9 per cento virgola qualcosa).
A parte questo marginale contenzioso più che altro ragionieristico, le leadership dei due partiti maggiori sono costretti a parlare lo stesso linguaggio. Perché
non conviene, né al Pdl né al Pd, affrontare le questioni centrali del voto per il rinnovo del Parlamento europeo. Dovrebbero fare autocritica. Non ne hanno voglia. Dovrebbero, infatti, riconoscere che, con la loro campagna elettorale senza anima, hanno spinto molti cittadini-elettori ad andarsene al mare. E che, ancora una volta, è stato controproducente l’appello al voto utile, inseguendo il
teorema imperfetto del bipartitismo che non c’è. È vero. Resta fuori la sinistra
antagonista. Però, ognuno avrà comunque la sua spina nel fianco. Che, da oggi, sarà ancora più pungente, perché porta a casa più voti (Lega al 10,2% e Idv all’8%). Inoltre, c’è l’Udc che, consolidando il suo elettorato (6,5%), occupa quel centro che Pdl e Pd considerano l’ombelico del mondo. Il che consentirà a Casini di vivere di rendita da qui all’eternità. Al Sud è un’altra storia. Forse per la prima volta, nella grigiore elettorale delle regioni meridionali, il voto
indica una tendenza diffusa e lineare. I risultati, infatti, sono più netti. Quasi indiscutibili nella trasparenza dei numeri. Tutto sommato, si materializza quell’Italia che Silvio Berlusconi si augurava e che Dario Franceschini temeva.
Qui non valgono le considerazioni spericolate con cui, a livello nazionale, il voto europeo viene ristretto frettolosamente nel dimenticatoio delle mezze sconfitte che diventano vittorie all’incontrario (il Pd si rallegra perché il Pdl non sfonda e il Pdl è soddisfatto perché il Pd perde voti rispetto alle politiche) e degli opposti estremismi che guadagnano consensi e territori (la Lega al Nord e la Lista Di Pietro al Centro-Sud).
Qui, l’onda lunga del centrodestra si vede. E lambisce praterie sconfinate (41,9%, 8 seggi) molto simili a quelle della Dc trionfante. Da subito, quindi, è possibile dire che il Pdl va meglio dove non è costretto a inseguire la Lega. E che, nella circoscrizione meridionale, ha funzionato l’effetto “cavallo di ritorno” (l’Udeur di Mastella).
Al contrario, il Pd arretra su posizioni (23%, 4 seggi) che segnano una perdita secca anche rispetto alla lista di Uniti nell’Ulivo (-8,7%). Al Sud, però, tutte le tendenze si amplificano. Anche la lista di Pietro raccoglie di più (10%, 2 seggi) e l’Udc supera il mezzo milione di voti (8,5%, 1 seggio). Inoltre, gli schieramenti della sinistra inquieta e frantumata superano lo sbarramento (Prc-Pdci con il 4,1% e Sinistra e Libertà con il 5,2%).
Non serve per andare in Europa. Ma, nel suo insieme, è la sottolineatura di una presenza politica con cui il Pd dovrà confrontarsi. Questo 10% scomodo, infatti, domani, sarà indispensabile per organizzare nuove alleanze di Governo. Anche l’andamento del voto calabrese, nella sua struttura portante, è riconducibile a quello della circoscrizione Sud. Non è né una novità né una sorpresa. Sarebbe bastato leggere con umiltà i risultati premonitori del sondaggio che l’onorevole
Marco Minniti, a fine anno, aveva commissionato all’Ipr Marketing.
Nel commentarli, ci venne La Tribuna elezioni difficile comprendere le ragioni
dell’ottimismo con cui il suo gruppo dirigente li presentava (“Il Pd? È il meno peggio”, Il Quotidiano 31 dicembre 2008). Era questa, infatti, la motivazione con cui buona parte degli intervistati (71%), ivi compresi tanti suoi tradizionali elettori, spiegavano “perché”, se fossero andati a votare, avrebbe scelto il Pd calabrese.
Inoltre, una percentuale altrettanto maggioritaria (54%) lo considerava o “poco credibile” o, peggio ancora, “per niente credibile” per “affrontare la lotta alla corruzione”. Ne andava meglio neanche sul versante dello sviluppo e della disoccupazione (nell’insieme il 57% esprimeva un giudizio più o meno da infarto fulminante sull’adeguatezza delle sue politiche per il lavoro). Scrivevamo, all’epoca, che quel “sembra il meno peggio” avrebbe dovuto essere vissuto come una
ferita profonda.
Quasi una sfida da affrontare orgogliosamente inmaniera immediata e radicale. Senza sentirsi appagati, se un altro sondaggio parallelo, oggi risultato poco
attendibile, prevedeva che, nelle intenzioni di voto, il Pd regionale (32%) era al di sopra della media nazionale (27%). Perché un partito, se percepito in termini così negativi, è molto vicino al punto di rottura. Bisognava darsi una mossa. Innanzi tutto sul piano dell’identità e del buongoverno. Invece, si è fatto poco. Anche davanti a un disastro annunciato. Lo stesso Berlusconi non
si aspettava tanto dal Sud. Infatti, sentitamente ringrazia.

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