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di FRANCO CRISPINI
Non si pretende che si debbano ricordare le ripetute riflessioni fatte da chi scrive, su questo nostro giornale, riguardante le “questione Mezzogiorno” nella condizione storico-politico-culturale di oggi, se non perché non si creda che siano state o siano dedotte o mutuate da altre fonti giornalistiche e non invece suggerite e stimolate da tutto un quadro sempre aperto, e ora anche più complicato, di problemi reali e pressanti. In realtà, in tante occasioni, allorché ha fatto eco a una insistente attenzione della stampa nazionale a un Sud “senza più voce”, o ha inteso, tra i primi o il solo, richiamare a non lasciarsi sfuggire, nell’imminenza dei centocinquant’anni della Unità d’Italia, nel 2011, i molteplici significati di quell’evento per il Sud e per la Calabria, organizzando celebrazioni non semplicemente retoriche affidate dalle Prefetture ai soliti “benemeriti”, chi scrive non ha mancato di compiere delle verifiche critiche circa la attualità politico-culturale di una “questione meridionale” nei termini certamente diversi in cui poteva tornare ad affacciarsi. Per tanti mesi dell’anno trascorso, del Sud e sul Sud se ne sono sentite tante tra convegni, saggi, interventi, iniziative di politici meridionali in Sicilia, in Campania, in Puglia, che hanno avuto una vasta eco e hanno provocato dichiarazioni e “annunci” del presidente dei Consiglio, del ministro del Tesoro, e di tanti ministri, quasi un momento di distrazione dai problemi della giustizia e dalle soluzioni per i processi giudiziari personali del premier. Poteva sembrare che ciò avvenisse perché si era a distanza di un anno circa dalle elezioni regionali del 2010, e che quindi si cominciasse a pregustare la conquista di disastrate regioni del Sud come la Campania e la Calabria. C’era anche questo certamente, ma una ventata di rivendicazioni secessionista-sudista, quella minacciata dai Lombardo dell’Mpa, Miccichè dello stesso Pdl, in Sicilia, dalla Poli Bortone in Puglia, e altri focolai qua e là dalla Calabria alla Campania, era proprio quello che si riteneva facesse al caso, era un segnale pericoloso per il governo Berlusconi sbilanciato verso politiche nordiste-leghiste. Era un brutto avvertimento da parte dei siculi soprattutto, per collocare meglio proprie richieste di trasferimenti di risorse finanziarie e, da parte di altri, per ricalcare l’incidenza bossiana sui programmi berlusconiani. Di concreto non avvenne poi nulla. Ora c’è un quadro politico meno rassicurante, con gli esiti delle ultime elezioni regionali, l’avanzata della Lega che si espande e dilaga non solo nella Padania ma in ampie zone “rosse” del Centro-Nord, dopo che Berlusconi si è assicurato il controllo di regioni come Campania e Calabria, si sono aperti altri corridoi per rapporti di tipo nuovo tra Nord e Sud: la vecchia “questione meridionale” prima di entrare in una fase di piena cancellazione, ricompare con aspetti ancora diversi. La discussione che si è aperta soprattutto tra economisti, sociologi, studiosi di vario tipo e formazione, qualche politico, sembra culminare nell’interrogativo se il Mezzogiorno debba e come costruirsi una difesa, debba alzare una diga verso l’immancabile straripamento di un leghismo che pur da lontano ha nel Pdl e nei docili governatori calabro-campani i giusti canali per far sentire tutto il suo peso, questa volta raddoppiato dal successo elettorale. Come si va notando e scrivendo, anche con qualche esagerazione, leghismo è divenuto quasi una rivendicazione di buon governo dei territori, una permanente protesta contro un Sud spendaccione (Tremonti arriva ad affermare: «I poveri delle regioni ricche finanziano i ricchi ladri delle regioni povere»), che si avvale di risorse sottratte dallo Stato centrale allo sviluppo del Nord, in cui la politica è in funzione dell’acquisizione di benefici particolaristici, in cui i problemi non sono creati dalla insufficienza di risorse bensì dalla pessima qualità dei governi locali. Come cambieranno d’ora in poi le cose in regioni meridionali come Campania e Calabria cadute sotto il controllo di un Pdl galvanizzato dal bossismo leghista, con scarsissime capacità di realizzare politiche autonome? Riusciranno i governi di queste regioni a sfuggire alle forche caudine dei duri e puri nordisti-leghisti che controlleranno le politiche di spesa e vigileranno su quella che riterranno la migliore (per loro stessi) applicazione del federalismo fiscale? Si potrà contare su di una mediazione favorevole del capo indiscusso che comunque deve pur sempre fare i conti con un partner, Umberto Bossi, esigente e ringhioso ma fedele (sempre accontentato in tutto quello che chiede ? La proposta di creare un “Partito del Sud” (fatto da chi? Con quali obiettivi?) che finora ha dato luogo a una discussione più che altro accademica, come strumento quasi di difesa contro il pericolo che la Lega arrivi fino in fondo a far valere un indirizzo di governo per mettere in riga i governi meridionali e togliere loro ogni autonomia, genera molti dubbi e accresce solamente la inquietudine per gli scenari che potrebbero aprirsi. Nelle condizioni, appunto, così poco promettenti, di un laccio berlusconiano-leghista, una corda a doppio spessore attorno al collo delle due regioni meridionali, quello che veramente occorrerebbe è un partito pensieroso del Sud, ricco di progetti per il Sud, con gruppi dirigenti capaci, colti e innovativi. Il Partito Democratico potrebbe divenirlo, potrebbe superare l’attuale fase di inaridimento, di torpore, di eclissamento, come in Calabria, di valori fondamentali e regole che sono poi quelli che non servono solo a conservare un elettorato da spartire all’interno della nomenclatura, ma attraggono la fiducia della gente e risparmiano dai tonfi del tipo di quelli ultimi?

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