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di DOMENICO TALIA
In questi giorni tutti parlano di università, lo fanno costretti dagli studenti e dai precari saliti sui tetti delle università e in cima ai monumenti italici. Lo fanno spesso con la stessa competenza e con la stessa scrupolosità con cui di solito discutono della formazione della nazionale di calcio. Lo fanno a volte esprimendo pareri e preconcetti su una realtà che conoscono poco o per nulla. Lo fanno in molti casi per partito preso e senza capire quanto la questione sia importante per l’intera nazione. Quelli del Pdl perché vogliono dimostrare che il “governo del fare” è capace di fare la riforma dell’università, costi quel che costi. Quelli di FLI perché vogliono dimostrare che sono capaci di tenere Berlusconi sulla graticola e mettere il suo governo in minoranza alla Camera quando hanno bisogno o quando ne hanno voglia per ragioni che c’entrano poco o nulla con i problemi dell’università italiana. Quelli del Pd che, in maniera silente, hanno appoggiato la riforma durante tutti i lavori in commissione, salvo poi arrampicarsi sui tetti quando gli studenti e i precari li hanno costretti ad aprire gli occhi e a dover dimostrare da che parte deve stare una opposizione seria. Il giochino dei parlamentari di Futuro e Libertà è palese: un giorno votano contro la riforma mentre il giorno dopo la elogiano, come ha fatto Fini a Lecce per motivi di tattica politica, definendola “una delle cose migliori di questa legislatura”. Se questa è la cosa migliore, figuriamoci cosa sono state le cose peggiori di questa legislatura! In realtà in questa partita in cui si gioca la possibile fine dell’era berlusconiana, l’approvazione della riforma dell’università è diventata un pretesto per la lotta politica all’interno della maggioranza di un governo che è ormai al capolinea. Questo scenario fa sorgere enormi dubbi sulla capacità di questa riforma e di questo governo di poter determinare nell’università italiana quei cambiamenti che sono assolutamente necessari. Che sono necessari per combattere i tanti che nell’università si sono costruiti i loro clan accademici, i tanti che usano la cattedra per il piccolo cabotaggio o per sponsorizzare le loro attività professionali, i tanti che sviliscono una delle più importanti istituzioni che gli uomini hanno saputo concepire e la usano come fosse la loro piccola bottega. Tuttavia, nonostante le tante critiche che si possono fare, sarebbe un grave errore pensare che nell’università italiana tutto sia negativo. Al contrario dei tanti luoghi comuni che esprimono solo negatività, le università italiane sono piene di luci che coabitano insieme alle tante ombre. Oltre al fatto che, come appare ovvio, le tante università italiane forniscono didattica e ricerca di qualità differente, all’interno di una stessa università vi sono facoltà e corsi di studio eccellenti che convivono con altri di bassa qualità. Ed anche in uno stesso dipartimento vi sono gruppi di ricerca di primissimo valore che sono costretti a convivere con altri gruppi la cui ricerca non è per nulla apprezzabile. Questo implica che l’esprimere un giudizio generale sull’intera università italiana o su una singola università diventa una banale generalizzazione e non rappresenta un giudizio accurato che tiene conto delle diverse realtà che in quella università convivono e che in tanti casi raggiungono livelli di assoluta eccellenza. Anche a causa di questa intrinseca complessità dell’università italiana, una riforma dovrebbe essere composita e completa altrimenti corre il rischio di peggiorare quello che di buono c’è senza risolvere i problemi di cui l’università soffre. In questo senso, la riforma, pur contenendo elementi positivi, come la modifica dei concorsi per professore, il limite ai mandati dei rettori e l’attribuzione di un ruolo primario ai dipartimenti e alle scuole, dall’altro lato introduce la figura del ricercatore precario (elemento che ha giustamente fatto innescare la protesta dei tanti giovani che nell’università lavorano e che amano la ricerca), definisce una governance universitaria di tipo aziendale che stravolge la missione dell’università italiana e introduce nella sua guida amministratori esterni guidati da logiche di business o, peggio ancora, da logiche partitiche, ed infine non immette risorse nel sistema per modernizzarlo e per sostenere l’avvio di un processo di valutazione di docenti e ricercatori che possa veramente premiare il merito e l’impegno. Anzi, al contrario prevede un forte taglio delle risorse che, rispetto agli investimenti che le altre nazioni sviluppate fanno nelle università, sono già molto limitate. Insomma, se dovesse essere approvata, questa riforma, insieme a qualche miglioria, porterebbe instabilità, perturbazioni e ristrettezze che potranno soltanto peggiorare la situazione esistente. Tutto questo è apparso evidente agli studenti e ai giovani ricercatori e per queste ragioni sono diventati arrampicatori di palazzi e monumenti. Questi ragazzi sono lì perché hanno capito che rischiano di vivere una intera vita da precari. Perché sono una risorsa per l’Italia mentre qualcuno li vuole far passare per un problema. Sono lì non certo per difendere i baroni universitari, come ha cercato di far intendere il ministro, non so se con una dose di malizia o per mancata conoscenza delle loro reali motivazioni. Questi ragazzi hanno capito che da un governo che teorizza che “la cultura non si mangia” e che non investe nella ricerca e nell’innovazione è difficile che venga fuori una riforma che possa migliorare la loro situazione e il loro futuro insieme a quello dell’università italiana. Questi giovani non meritano di essere strumentalizzati dalla politica italiana. Non meritano di essere usati da chi ha interesse ai giochetti delle schermaglie nella maggioranza o gioca a fare l’opposizione e andrebbero ascoltati e sostenuti da chi ha a cuore il futuro dell’Italia che passa certamente dalla risoluzione dai problemi dell’università italiana.

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