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Cercare il colpevole è un esercizio inutile. Magari può essere divertente (non a caso esiste il Cluedo). Magari può servire a placare la “rabbia”.  Magari semplicemente è utile per incolpare chi è meno “simpatico”. Ma nel caso della débacle elettorale del Pd, cercare il colpevole non serve a nulla. Per un semplice, ma fondamentale motivo: perché il colpevole non è uno solo. Bersani? Probabilmente ha commesso qualche errore. Forse più di qualcuno. Speranza? Anche lui non è esente da errori è evidente. Ma il Pd, non è solo il suo segretario nazionale e regionale. 

Lo hanno detto così tante volte i colonnelli democratici («nessuno possiede le chiavi del Pd») che oggi quella stessa affermazione non può essere cancellata come se nulla fosse. La responsabilità è di tanti. Non a caso il Pd in Basilicata fino all’altro ieri era conosciuto anche come Partito regione. Ed è nella sua stessa palingenesi  che il Partito regione nasce per non disperdere le forze migliori del centrosinistra. Per governare tutto, comprese le fasi del rinnovamento e di transizione. E se le cose non sono andate come tradizione è ovvio che è il Partito regione ad entrare in crisi. 

O meglio forse, il risultato è frutto di una crisi già esistente che si è palesata con il risultato del 25 febbraio scorso. Per metafora: evidentemente il tappeto non è più sufficientemente largo per nascondere tutta la polvere. Piero Lacorazza nell’ultima Direzione regionale lo aveva detto: «C’è molta brace sotto la cenere». Non è bastata evidentemente qualche secchiata di acqua con le primarie aperte solo a pochi “fortunati”, con gli slogan triti e ritriti che non incantano più, e con qualche faccia nuova messa giusto per chiudere le liste. Il rinnovamento non è più tema da nota a margine. Il rinnovamento è obbligatorio. 

Da qui le responsabilità di Roberto Speranza: doveva osare di più. Non può essere lui il regista, lui il mediatore e allo stesso il rinnovamento. Lo è per età e freschezza di immagine da ragazzo educato di buona famiglia. Ma il rinnovamento pretende anche delle ritualità più ruvide e violente. Insomma quella “maleducazione” renziana che non piace a D’Alema probabilmente non doveva essere messa troppo velocemente in naftalina. 

Ma da solo nemmeno il renzismo può curare quello che oggi è un Pd ammalato. Serviva anche qualche azione di generosità da parte dei colonnelli. Qualcuno doveva farsi da parte. Legittime le aspirazioni alla riconferma di Bubbico, Chiurazzi, Antezza, Margiotta (solo Luongo è uscito dalla contesa  per una discriminante nazionale) per carità ma oggi loro vanno a Roma e in Basilicata resta un Pd molto più povero. Tanto più che le primarie qualcosa avevano suggerito. 

Tanto più dopo il “fattaccio” dei brogli a Nova Siri. Quel quinto posto per Chiurazzi in lista oltre che inutile a molti è parsa una toppa mal messa. Come quel discorso infinito sul “trenino” per portare De Filippo in Parlamento tra due anni ma non subito. A chi ha giovato? A De Filippo certo no, ma nemmeno al Pd e  tanto meno a Luongo. Ma la lista degli errori potrebbe continuare iscrivendo nella lista anche il “brutto carattere” di Folino che tanto ha fatto scrivere ma che in termini relazioni dilania più che avvicinare. Insomma la colpa non è certo del “goffo” maggiordomo. Ma se all’appello mancano almeno 4 o 5 punti percentuali (20 – 30 mila voti)  la colpa va divisa. Ed è inutile che su Twitter gli stessi big a partire da Margiotta oggi si prestino al gioco al massacro. E’ il tempo di capire con umiltà cosa non ha funzionato. Perchè se quel 26 per cento a livello nazionale non rappresenta il minimo garantito, in Basilicata meno, con tutto il sistema costruito negli anni, è davvero impossibile da raccogliere.

 

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