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Se vuoi provare a farti un’idea di cosa sia successo con queste elezioni, puoi farlo in molti modi ma forse ce n’è solo uno significativo. Il livello di analisi che si mantiene sui contenuti politici funziona bene per raccontare l’oggi.


Ma se vuoi davvero provare a capire cosa sta succedendo, probabilmente, devi cominciare a distinguere tra sintomi e cause. Abbandonare i temi della campagna elettorale, irrilevanti oltre il brevissimo periodo, e cominciare a riflettere su quello che davvero sta accadendo. E quello che sta accadendo si può spiegare solo su un piano più astratto, quello politologico, quello dei processi profondi che cambiano le cose. E che i partiti e le persone, spesso, inseguono con affanno. Il più delle volte senza le idee troppo chiare.


Tocca prendere atto di una cosa banale. Sta cambiando il mondo, in fretta, e tutti noi -classe dirigente inclusa- ci siamo formati in un periodo che aveva regole diverse. Stiamo affrontando un grande salto di complessità nel modo più sbagliato. Cerchiamo di dare risposte semplici a problemi complessi. E guardiamo, stupiti, le conseguenze. Più o meno come i dinosauri che vedono arrivare il meteorite.


Da sempre le nostre società si sono organizzate -e modellate- sugli strumenti che avevano a disposizione per gestire la conoscenza e l’informazione. Oggi abbiamo tecnologie velocissime e molto efficaci per far girare pensiero e confronto. Nel mondo ipersemplificato  del XX secolo, mono-dimensionale rispetto a quello di oggi, l’elettore si informava comprando un giornale o cogliendo di sfuggita qualche stimolo in televisione. Andava ai comizi, cercava un contatto con il candidato. Oggi, immerso nell’informazione, ogni individuo è parte di  un racconto più complesso. Non solo parte: anche protagonista.


La ricerca dimostra che se aumentano le informazioni disponibili, aumentano le aspettative. Così cresce la domanda di una politica di maggiore qualità. Ma non solo: cresce la domanda di partecipazione -alla discussione, alla decisione- e accade poi un’altra cosa che può sembrarci poco intuitiva. Le tecnologie digitali non sono affatto quella tecnicaglia virtuale che abbiamo troppo sottovalutato: servono alle persone per organizzarsi. E se le persone possono fare una cosa utile in modo nuovo, in genere la fanno.


Tutto questo ha diversi impatti sulla politica e sulla maniera in cui cominciamo a ripensare la democrazia. Il punto però è che quando i grandi cambiamenti avvengono così in fretta, gli individui sono sempre più veloci ad adattarsi rispetto alle organizzazioni. L’elettore cambia molto più in fretta del partito. E il partito frena, rallenta, cerca di digerire quello che sta succedendo, ne discute, elabora, si appoggia a strategie difensive e rassicuranti. 


Quello che stiamo osservando, e alcuni lo hanno interpretato meglio di altri, è che il Paese sta chiedendo alla politica una grande innovazione di processo. Sta chiedendo segnali di una politica che funzioni in modo diverso. Che trasmetta un senso di futuro, che sappia costruire delle idee nuove, coerenti con il secolo che stiamo vivendo. Ma anche una politica che cambi il suo linguaggio, lo aggiorni a un tempo della Storia in cui occorre pensare -e insegnare a pensare- in modo differente.


Così non è difficile capire perché abbiamo questi risultati come conseguenza di una campagna elettorale concentrata sulle gambe corte di promesse di breve periodo (o -peggio- di temi piccoli disegnati per i titoli dei giornali). Non è difficile neanche capire chi, in un modo o nell’altro, abbia saputo cogliere i segnali di cambiamento, interpretandoli nel modo migliore di cui era capace. Nessuno lo fa ancora bene, siamo in piena transizione. Ma molti, chiusi in quello che oltreoceano chiamano Daily Me, il racconto autoreferenziale di chi la pensa come te, sono rimasti ancora più indietro.


Non stiamo parlando di politica, è utile ripeterlo. Stiamo parlando di uno scenario più ampio che la politica deve imparare a leggere. E non è neanche una questione di fasce d’età, quanto una lezione di umiltà da cui dobbiamo ripartire tutti insieme. Sono cambiati i cittadini. È cambiata la società. Deve cambiare la politica.


E non è una questione di leader, di correnti o di polemiche generazionali. Nè di preferenze personali. Bisogna aggiornare l’approccio, le idee, le modalità di rapporto con la realtà e con gli elettori. Superare lo scontro col nemico. Comprendere che le sfide di oggi si risolvono cooperando, costruendo, innovando, e non tagliando le gambe agli altri o gettando fango sull’avversario. I primi che riusciranno a compiere questo salto avranno un grandissimo vantaggio competitivo.


Io personalmente, se dovessi giocarmi una birra, direi che tutto sommato in queste elezioni potremmo aver vinto tutti. Perché le grandi organizzazioni – quindi anche i partiti- tendono a non risolvere i problemi che sono preposti a risolvere, altrimenti diventano inutili. Non cambiano mai per volontà spontanea. Non evolvono -se non in casi illuminati- per decisione interna. Perché questo accada, il più delle volte, serve una crisi che metta sul piatto dell’evidenza un’evidenza già evidente a tutti gli altri.


Quindi, se davvero dovessi fare una scommessa al buio, credo che da queste elezioni impareremo qualcosa che ci sarà molto utile domani. Tutti, a tutti i livelli. Dai politici ai direttori di giornali, agli individui. Nella Silicon Valley, un posto in cui la gente è abituata ad adeguarsi in fretta (ma soprattutto a precedere gli altri invece di inseguirli), dicono: sperimenta, sbaglia, sperimenta meglio. Il XXI secolo funziona così. La retroguardia, nel mondo di oggi, non è mai una strategia.


E qui da noi, in Basilicata, abbiamo il vantaggio di dover affrontare una minore complessità e di avere un società viva e reattiva che aspetta solo di essere valorizzata e accompagnata verso il futuro. Forse possiamo essere i primi a ripartire, se decidiamo di farlo. E dipende da noi.

Twitter: @gg


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