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«Il pieno e il vuoto, le cose fatte e quelle apprese» sono un lungo elenco di vissuto, attività, ambizione, aspettative e suggerimenti. Sono il contenuto che il ministro Barca raccoglie in 55 pagine dense – quasi un saggio, sicuramente un manifesto – che mettono un paio di puntelli sul futuro del Pd. Non si scappa. 
In realtà, apre anche a scenari per la gran parte imprevedibili. Con la mossa di Barca, si complicano i giochi nel partito. Bersani? E Matteo Renzi? Tra i rottamatori, attesa, speranza e scetticismo. I bersaniani osservano. 
Mentre ancora non è chiaro che sarà, se sarà, del nuovo governo, ci si spinge lungo ipotesi, talvolta desiderata. Fabrizio Barca ne fa una, potenziale, e la mette nero su bianco, online. 
“Un partito nuovo per un buon governo” è un manifesto. Emendabile, però, secondo un metodo a cui Barca ha abituato chi ha lavorato, o soltanto dialogato con lui. Serve una nuova forma di partito. Serve una nuova forma di governo della cosa pubblica. Secondo un metodo che etichetta in «sperimentalismo democratico». 
Si candida  – non ne ha fatto mistero – a essere classe dirigente del Pd, il partito in cui ha militato, ma di cui solo poche ore fa ha sottoscritto la tessera. Considerato – ma su questo non ha mai detto molto – uno dei possibili concorrenti alla segreteria di un partito tra qualche tempo a congresso. Del resto, perché un manifesto? 
Si racconta e racconta, attraversa il Paese, il partito e la sinistra che ha conosciuto e a cui guarda, senza ammorbidirne i contorni. Ancora, perché dovrebbe? «Scrivo “di sinistra” – dice – come fino a fine anni ’80 si definivano sia alcuni partiti, sia alcune correnti della Dc, anziché usare altre circonlocuzioni, per sottrarmi all’ipocrisia di questi anni recenti, attenermi concretamente a come ci si divide nell’emiciclo delle assemblee elettive, ritrovare un più trasparente terreno di confronto con i partiti “di sinistra”». Ce n’è bisogno, aggiunge, in questo Paese. E lui che ha conosciuto la sinistra di Luciano, il padre deputato Pci, a lungo direttore dell’Unità, potrebbe raccontare un orizzonte positivo a tutta quell’area del Pd che ha un passato Pds, poi Ds, che sceglie l’alleanza con Vendola, che al termine centrosinistra preferiva togliere il trattino. In Basilicata è area di grande rilevanza.
Il ministro della Coesione territoriale qui ha anche altri sostenitori importanti. Al governatore De Filippo, lettiano di prima ora, è legato da una stima e da un’amicizia profonda. Ma da altri amministratori, invece, potrebbe arrivare un sostegno più squisitamente politico. Tra i sindaci, quello di Potenza, Vito Santarsiero, non ha mia fatto mistero di considerare Barca uno dei migliori politici degli ultimi anni: il metodo di partecipazione inaugurato nella gestione dei fondi europei sui territori ha creato un sistema di sostegno reciproco nella relazione Stato-Enti locali. E poi c’è una relazione, quella di Barca con la Basilicata, antica: membro della fondazione Nitti, economista legato al Mezzogiorno, punto di riferimento nella valutazione della spesa dei programmi comunitari. Ora lo sguardo si sposta, leggermente. Osservato dalla politica locale che deve posizionarsi. 
Il Pd di Barca deve saper essere «palestra» e non «pensatoio». Qualcosa in più, quanto meno di diverso, dal think tank a cui spesso i democratici si sono ispirati. In Basilicata più volte questa modalità di ragionamento che strizza l’occhio all’operatività moderna, idee veloci e collettive, è stata indicata come un contenitore adatto del brainstorming democratico. Barca vuole un dialogo che viva anche di toni duri, che proceda anche per prove ed errori. Con innovazione.
Il ministro sa, ne è convinto, che rinunciare ai partiti, no, non si può. Vanno, piuttosto cambiati. «E’ necessario che i partiti si separino dallo Stato» per divenire «rete materiale e immateriale di mobilitazione di conoscenze e di confronto pubblico». Sfidanti dello Stato, senza cercare innovazione solo nelle avanguardie. Meglio puntare su una «mobilitazione cognitiva». 

 

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