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LA mia generazione non vuole un altro Colombo. Forse la Basilicata ancora sì. Mi vergogno di paragonare la storia politica della mia regione a quella di altre. Mentre altrove il confronto era alimentato dai liberali, dalla destra, dalla “Rinascita”, dalla sinistra estrema così come dalla “base” interna alla DC, qui in Basilicata si anticipava il compromesso storico cattocomunista non per lunghezza di vedute ma per convenienza elettorale. 

La storia studierà le carte di Colombo, tuttavia d’impulso un’analisi nasce spontanea. Un giudizio di rabbia e sdegno che chiaramente e con forza hanno espresso solo Tita e Belmonte da queste pagine, il resto è un panegirico che sa più d’agiografia che di cordoglio. Colombo e la sua Italia hanno istituzionalizzato il clientelismo ad arte di governo, buttando nel cesso le parole lungimiranti di statisti come De Gasperi, che invitava a guardare alle generazioni non alle elezioni. Colombo è la miglior anima mediocre della Basilicata, la summa della sconfitta culturale di quella civiltà contadina che proprio dalla politica colombiana ha avuto il colpo di grazia. Colombo ha preso migliaia di famiglie legate al culto delle terra e le ha delocalizzate negli uffici e nelle fabbriche. Quando si farà una storia socio-economica della Basilicata, sarà lapalissiana la terziarizzazione delle nostre genti, migliaia di persone che per decenni hanno avuto impiego pubblico, terreni ed incarichi politici o sindacali senza l’adeguato retroterra culturale ed etico. Colombo ha permesso al consumismo di vincere sul cristianesimo rurale, propinando all’immaginario popolare una sua immagine di onnipotenza divina ( i paesi si fermano quando arriva Colombo ) un’emanazione divina che annullava ogni uguaglianza sociale perché lui tutto poteva. I giudizi di De Filippo e di tutti gli altri mi hanno fatto accapponare la pelle: come si fa  a parlare di maestro di fronte a palesi responsabilità storiche; dopo la Seconda Guerra mondiale gli anti-fascisti volevano renderci liberi e ci hanno invece reso diversi. 

L’Italia di oggi è anche quella di Colombo, della vellutocrazia, dell’ascolto passivo, dei fiumi di denaro dal piano ERP alla Casmez, dai fondi UE alla gestione delle emergenze: miliardi di euro di cui Colombo dovrà dar conto alla storia. La Basilicata è morta seguendo un modello di sviluppo “Potenzacentrico”, l’eredità asfissiante di una rete infrastrutturale e burocratica pesante ed alienante, l’assenza di un dibattito culturale vero ed autentico. Ma possibile che solo Tita, Belmonte, il sottoscritto e qualche altra penna libera critichino pubblicamente il “colombismo”. Colombo ha annientato le coscienze e la democrazia così come tutti gli altri cavalli di razza da Coviello a Sanza che ancora oggi hanno la tracotanza, nonostante lo sfacelo generale, di poter interpretare le esigenze popolari. Banditi gli intellettuali liberi dai partiti, i tecnici assoggettati alla politica altrimenti tacciati di massoneria, la DC di Colombo ha venduto l’anima della Basilicata al diavolo, ossia al dio denaro. Un culto della persona assurdo, tant’è vero che i nostri comuni sono tappezzati di targhe commemorative ove il nome di Colombo veniva celebrato ancora in vita, un chiaro segnale di astenia democratica. Un merito Colombo l’ha avuto, esattamente come il male: farci capire l’importanza del bene. Egli ha assecondato i vizi dei lucani magistralmente, ha capito come instaurare quella che Andrea Di Consoli ha sempre definito la”tirannia del bisogno”, ha capito che 600mila persone sparse in 60 abitanti per km2  non avrebbero mai potuto metterlo in discussione fino a quando non fosse nata una coscienza collettiva, col suo clientelismo pensava di fare il bene di tutti invece ci narcotizzava. Oggi non siamo ancora un popolo, altro grande demerito di Colombo, agricoltori ed imprenditori non sono mai riusciti a fare squadra anzi siamo colonia del capitale extra-regionale, e Colombo passa per essere uno statista mentre è stato soltanto un abile ragioniere che con i soldi statali ha riportato il feudalesimo in Basilicata.  A me Colombo non lascia alcun insegnamento se non un’antitesi: non essere mai come lui. Non è stato né principe del foro, né un economista, né un ingegnere, né un umanista od un imprenditore: è stato un nominato permanente, un esempio lampante di come un italiano normodotato possa, con i giusti contatti, essere potente e ricco senza aver lavorato davvero nella sua vita. 

Scardaccione si beccò dei colpi di pistola sulla Basentana, Rossi Doria e Saraceno li apprezzano più al nord che da noi e lui è ricordato come il nostro primo pontefice, che si indignò illo tempore per la fuga di notizie relativa alla sua assunzione di eroina. Oggi il garantismo è sporadico mentre l’ipocrisia rimane rifugio dei deboli infatti non ho memoria di nessun giornalista lucano che abbia avuto il coraggio di chiedere pubblicamente a Colombo se avesse mai raccomandato qualcuno, perché la Val Basento è morta d’inedia politica, se lui avesse mai attuato delle economie gestionali da ministro, qualcuno che gli abbia chiesto di droga ed omosessualità, questione demografica, malavita, mai domande scomode a Colombo, mai. Eppure io una domanda l’avrei fatta: Presidente Colombo ritiene un paese libero, quello nel quale l’aggiudicazione degli appalti pubblici e dei finanziamenti statali veniva comunicato sempre prima ai segretari provinciali di partito piuttosto che alla stampa o sulle gazzette ufficiali? Avrei voluto portare Colombo a fare una gita dantesca nei ricordi della sua vita, per esempio nell’archivio storico del mio comune, ove sono più numerose le lettere di raccomandazione che le richieste di assistenza per i poveri (ECA). Questa è la Basilicata del dopo Colombo, un deserto di coscienze. Chiedo scusa se sono stato violento, ma la rabbia è l’unica eredità che rimane dopo aver vissuto da lucano libero sotto le propaggini dell’impero di Colombo.

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