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CHIAMARE le “voci di dentro” della Basilicata, ossia le espressioni della letteratura, del cinema, della poesia e del teatro, delle organizzazioni culturali, per raccontare, narrare, conoscere prima ancora di far conoscere, la nostra regione è un’intelligente e lungimirante operazione. Voci singole, autonome, distinte ma che insieme compongono un mosaico, disegnano un quadro, scrivono uno spartito nel quale si ritroveranno motivi convergenti, complementari, assonanti.

Si dice che la Basilicata è segreta, misteriosa, nascosta, incontaminata, selvaggia, inaccessibile, lenta, silenziosa. Diverse qualificazioni che, tuttavia, in diverso modo, indicano qualcosa di discreto, celato, riservato, sconosciuto.

E quale è la reazione del viaggiatore che conosce e attraversa la Basilicata? Nella più parte dei casi esprime sorpresa, stupore, meraviglia, chiedendosi  perché non l’abbia conosciuta prima. Sicuramente hanno inciso la collocazione geografica e l’accessibilità.

Una regione del Mezzogiorno racchiusa fra le altre, fuori dalle grandi vie di comunicazione, ferroviarie e stradali, scarsamente abitata, con un’orografia accidentata, piccoli affacci sul mare. Condizioni che non la ponevano al centro di traffici, scambi, relazioni.

Ma la mancanza di una narrazione (o probabilmente di una memoria  salda e condivisa) è dipesa anche dall’assenza di grandi e significativi centri culturali: non che siano mancati nel corso dei secoli artisti, scrittori, musicisti, storici e altre figure intellettuali di spessore, ma pensiamo, ad esempio, alla nostra università che ha solo pochi decenni di vita (fu istituita nel 1982, dopo il terremoto del 1980), nè vi sono altre istituzioni culturali di rilievo o altri centri di produzione culturale idonei a fertilizzare ambiente e comunità sotto il profilo in discorso.

La Basilicata è stata più oggetto che luogo di studio ed elaborazione. Penso alle ricerche antropologiche di De Martino (meno alle approssimazioni  di Bavield).

Non è un caso che la rappresentazione della Basilicata più diffusa e conosciuta sia quella di un intellettuale (pur di valore) torinese, come Carlo Levi consacrata nel “Cristo si è fermato ad Eboli”, un libro scritto fra il 1943-44  e pubblicato nel 1945.

Quello straordinario racconto di una condizione umana e sociale dura, dolente, arretrata, è diventato col passare del tempo uno schema che si riproduce e si ripropone sempre e comunque, uno stereotipo, fino a sconfinare in un modello quasi nostalgico.

Quello che è stato definito il levismo è questa trasformazione dello spirito e dell’ispirazione del famoso romanzo, questa distorsione che contraddittoriamente sfociava in un atteggiamento (o una “filosofia”) che era fatta di denuncia, rassegnazione, nostalgia, elegia.

Quel che interessa qui, tuttavia, non è tanto una disputa su Levi e il levismo, quanto la domanda sul perché sia successo, come mai quella lettura è sopravvissuta ed è apparsa come quella ancora attuale della realtà lucana, nonostante questa fosse notevolmente cambiata.

Fra  le diverse possibili spiegazioni, attribuisco un peso specifico a quella carenza di autonoma capacità culturale, elaborativa e rappresentativa, che ha segnato la storia della Basilicata.

Solo più recentemente è cresciuta una diffusa ed elevata consapevolezza critica verso il passato e si ricomincia a leggere e interpretare la realtà senza la lente, ormai deformata, del passato.

Ma c’è da chiedersi: sopravviverebbe una rappresentazione se non avesse più una realtà sottostante, persistente, ancora condizionante, ad essa omologa?

Ritengo di no. Da questo punto di vista, il cosiddetto levismo, nell’accezione prima proposta, è il risultato del combinato disposto di una scarsa forza culturale autonoma lucana, ancor più  debole se esaminata sotto il profilo della propensione  all’innovazione, ma anche di una realtà regionale che, accanto a nuove tendenze e realizzazioni, conserva segni e modi del passato, è insomma un intreccio di contraddizioni, di percorsi avviati ma non conclusi, mutamenti iniziati ma non completati.

Se volessimo classificare la Basilicata, oggi, dovremmo dire che è tema di contraddizioni e quindi di trasformazioni (reali o potenziali).

Alcuni esempi possono essere utili.

Il primo. Almeno in tre settori (automotive, estrazioni petrolifere, osservazioni della terra), in Basilicata vi è il concentrato delle tecnologie più avanzate, si applicano le metodiche più raffinate, insomma si è campioni di modernità e innovazione.

Nella stessa regione, accanto a queste “eccellenze”, coesiste uno dei più alti tassi di povertà (il riferimento ovviamente è alle statistiche riferite alla soglia di povertà, nella quale la Basilicata è collocata agli ultimi posti).

Il secondo. La Basilicata ha i giacimenti di idrocarburi più grandi d’Europa, ma al tempo stesso, è fra le regioni  con la più ampia superficie di aree protette o vincolate (circa il 30% del territorio regionale, preceduta solo da Trentino e Abruzzo).

Terzo esempio. La Basilicata è la regione in cui geografia e demografia fanno rima ma sono inversamente proporzionali una all’altra. Con i suoi circa 10.000  chilometri quadrati, la Basilicata è più grande di regioni come Marche, Umbria, Liguria, Friuli, ma ha una popolazione che è penultima per densità demografica (solo 57 abitanti per chilometro quadrato).

Da un canto, il basso tasso antropico è uno dei fattori che ha consentito quella singolare configurazione del paesaggio, in cui l’elemento naturalistico è caratterizzante, la percezione spaziale è ampliata, la varietà è di immediata evidenza.

Dall’altro, lo stesso fattore può essere causa di scarso presidio e manutenzione del territorio, ma anche di fragilità economica (invero, in Basilicata si è diffuso il senso comune che molte risorse e pochi abitanti dovrebbero determinare sviluppo e altro reddito ma nessuno è mai andato a cercare lavoro nel Sahara anziché a Milano o Francoforte o New York).

Oltre ad essere terra di contraddizioni, è terra di trasformazione, ripensamento, riconversione.

Lo è stata nei primi trent’anni di storia repubblicana, lo è stata negli ultimi tre decenni.

Il dopoguerra fu segnato da un massiccio intervento pubblico che mirò, prima, ad una potente iniezione di civilizzazione delle condizioni materiali di vita (acqua, elettricità, ospedali, scuole) e di sviluppo dei collegamenti (si pensi alle fondovalli che connettono il territorio regionale soprattutto al suo interno), quindi anche di creazione di attività produttive (con il sistema delle partecipazioni statali e con l’industria chimica).

L’unico intervento più diretto sul versante privatistico,  la riforma agraria, è quello che darà meno risultati (tranne in alcune aree, come il Metapontino).

Con la fine della Casmez e del sistema di PP.SS., la maggior parte del flusso pubblico statale arriva in Basilicata lungo la via della ricostruzione postsismica (anni 80 essenzialmente) e della creazione dello stabilimento Fiat Sata a Melfi (inizio anni 90). La conclusione del ciclo statale dell’intervento pubblico è connessa all’avvio dell’esperienza regionale del 1970.

La mutata  scala dell’intervento pubblico, anche di quello di sostegno,  determina anche una nuova e diversa tipologia di investimento, una più stretta connessione con il territorio, con le risorse autoctone.

Alcuni esempi rendono più comprensibile il cambiamento di prospettive, la diversità di impostazione, la novità dell’approccio.

Il primo. Durante la visita che fa in Val d’Agri la protagonista di Maltempo, l’ultima opera di Mariolina Venezia, il pranzo del pubblico ministero Imma Tataranni, è a base di fagioli di Sarconi, prosciutto di Marsicovetere, canestrato di Moliterno, i peperoni cruschi (di Senise), ma avrebbe potuto proseguire con la costata e il caciocavallo di podolica lucana, il pecorino di Filiano, la melanzana di Rotonda, la pasta di grano Cappelli, il pane di Matera, le olive nere di majatica di Ferrandina, la fragola candonga del Metapontino, il tutto accompagnato dall’Aglianico del Vulture, o dal Grottino di Roccanova o dal Primitivo di Matera.

Questo sintetico elenco di prodotti lucani non esprime solo la ricchezza e varietà del sistema agricolo lucano, ma la sua profonda trasformazione, resa manifesta dalle innumerevoli Dop, Doc, Docg, Igt, ecc., che contraddistinguono quei prodotti.

Spia illuminante non solo dei progressi produttivi, dell’affinamento metodologico, dell’applicazione di sistemi moderni, e cioè della capacità di valorizzare, diversificare, tipizzare, commercializzare, ma anche di una acquisita consuetudine con procedimenti

amministrativi, disciplinari, merceologici, protocolli operativi.

Insomma produzioni “intelligenti”, che cioè incorporano conoscenze, tecnologie, connessioni e che fanno, da un lato, misurare la distanza dalla “civiltà contadina” della metà del secolo scorso, dall’altro intuire le potenzialità in relazione a nuovi consumi, abitudini, mercati, ecc.

Secondo: il Metapontino. Ancora terra da bonificare in periodo fascista, posto per la seconda casa del ceto medio negli anni ’60, ora ricettività per migliaia di turisti e agricoltura da esportazione. E’ la zona della regione che ha il più alto tasso di “internazionalizzazione” fra ospitalità turistica di tedeschi, inglesi, norvegesi ed esportazione di primizie ortofrutticole in Europa, Asia, America.

Terzo esempio: aree protette e vincolate.

Negli ultimi trent’anni, quasi un terzo del territorio regionale è ricompreso in aree protette e vincolate, dal Parco del Pollino ai parchi regionali al Parco dell’Appennino Val d’Agri.

Ma il caso evidentemente più emblematico è costituito dai Sassi di Matera.

Nel dopoguerra, con le visite di Togliatti prima e di De Gasperi poi, vengono additati come caso di vergogna nazionale.

Nel grande imbuto che si affaccia e scende sulla Gravina migliaia di persone vivono in condizioni di assoluta indigenza, con una  mortalità  infantile altissima.

Nel 1952 la legge di risanamento, che in effetti è di sfollamento, con gli abitanti che si spostano nei nuovi quartieri sul piano (Lanera, Serra Venerdì, Spine Bianche, Borgo La Martella, Venusio), e i Sassi che rimangono per anni vuoti e abbandonati.

Il senso di rigetto, l’atteggiamento di rifiuto, lo stato di oblio, la situazione di abbandono vengono sostituiti da una volontà di recupero, da un progetto di riutilizzo, da una strategia di restauro, che trova il punto di coagulo nella nuova legge del 1986 (la legge 771/86).

Viene sconfitta la tesi della musealizzazione a favore dell’ipotesi di recupero dei Sassi come quartiere, dove residenzialità servizi, attività produttive coesistono, pur nel rispetto dell’originalità di una trama urbana senza eguali.

I Sassi vengono così progressivamente non solo risanati, restaurati e riutilizzati, ma studiati e interpretati come esempio virtuoso di interazione fra natura e attività umane, di sperimentazione di sistemi ecosostenibili ante litteram, di sapienza costruttiva, di modello di vita sociale e solidale, di incontro e coesistenza di storie e civiltà diverse, di sistema abitativo e urbano che si conserva e si rinnova dal Paleolitico alla modernità, fino al riconoscimento di Patrimonio Unesco nel 1993.

La fama di set cinematografico per grandi film e produzioni accresce l’attrattività della città dei Sassi, che diventa sempre più meta turistica internazionale.

Quella che era una vergogna nazionale diventa bene patrimonio mondiale dell’umanità. Quella che era una realtà nascosta, misteriosa, aspra, ora si manifesta, appare, si propone, fino a candidarsi a capitale europea della cultura 2019.

In poco più di mezzo secolo una trasformazione profonda, lungo un cammino, cosparso di contraddizioni, passi falsi, incertezze, lentezze, ma che approda ad una realtà nuova, a sua volta punto di arrivo e di ripartenza.

E questa candidatura, così come più in generale gli ultimi traguardi che si dovranno fissare e gli itinerari che si dovranno tracciare, per raggiungerli, non richiedono una rinnovata capacità di elaborare, rappresentare, narrare le nuove realtà, il rapporto fra vissuto e cambiamento, tra passato, presente e futuro, la dialettica tradizione-innovazione?.

Si avverte spesso il rischio di una scissione o di un parallelismo fra realtà in movimento, contraddittoriamente ma sicuramente mobile, e coscienza falsata di essa, quasi si procedesse in avanti con il volto rivolto indietro.

Questo è il rischio segnalato nella riaccesa polemica sul levismo, non un tardivo e insensato processo a Levi e al suo capolavoro letterario.

Abbiamo bisogno di voci, intelligenze, linguaggi che esprimano questa realtà, diano memoria e coscienza alla comunità, offrano quadri e immagini aggiornate di una Basilicata che non si nasconde più, ma vuole manifestarsi e  proporsi.

Al contempo, oggi più di ieri, e proprio a causa dell’abbandono di un  limbo in cui la regione era posta, è decisivo cercare forme e modi per coniugare le risorse preziose che abbiamo a disposizione (natura, patrimonio artistico, paesaggi, produzioni di qualità, ecc.), il loro valore e tipicità, con le sfide della modernità, delle frontiere aperte, delle dimensioni accresciuta  della competitività e anche dei tempi.

Un amico canadese, spiegando la Basilicata ad un suo amico texano, l’ha descritta come il luogo dove “everythings takes more time”. Una valutazione che stigmatizza la lentezza del divenire.

Appare lungo, e a volte insostenibile e inafferrabile, il tempo della comprensione, dell’accettazione, dell’elaborazione, dell’esecuzione, della realizzazione di processi e progetti.

E’ la ambivalente dialettica fra movimento e tempo, declinabile anche come sfida fra tradizione e innovazione.

Anche a non abbracciare integralmente le suggestioni del pensiero meridiano di Cassano o della decrescita felice di Latouche, non si può escludere che una certa distillazione del tempo abbia concorso a conservare paesaggi, natura, luoghi, ambienti, modi di vita, riti, clima (non solo ambientale), che altrimenti, sarebbero stati travolti dal vortice della modernità.

Ma è altrettanto vero che l’emersione dallo stato di arretratezza, la crescita sociale, l’ingresso nel circuito internazionale esigono che anche questo tema venga rideclinato.

Dalla politica innanzitutto. In questo senso, diventa sempre più decisivo il metodo della programmazione,  che metta in asse risorse disponibili, flussi finanziari, politiche di settore, soggetti, competenze, tempi e verifiche. Così come la politica deve trovare la forza e il coraggio di deporre le certezze del passato, di accantonare modalità di relazioni consolidate, liberare energie, spostare la competizione dal potere alle idee, puntare più sulla libertà e l’autonomia che sul controllo.

Ma la politica,  per l’incertezza del suo status, per la crisi di credibilità e di fiducia, non ce la fa da sola e d’altronde non c’è politica buona senza società buona, senza cultura buona.

La Basilicata che crede in sé, che punta su di sé, che si apre e non si nasconde, si racconta e non si segreta, si espone e si propone senza rimanere in attesa, questa Basilicata ha bisogno di nuove sintesi fra tradizione, risorse possedute, capitale sociale accumulato, e capacità di valorizzazione, cambiamento, investimento, proiezione, proposte.

La cultura è decisiva per questa sfida. Ma sia chiaro, la Basilicata non ha bisogno né di  apologisti, né di catastrofisti,  né di nuovi  chierici o intellettuali organici, ma di  pensiero e cultura che  colgano il mondo,  interpretino l’epoca e li rappresentino con loro specifici strumenti, percorsi, modi.

Penso a quell’oramai vasto arcipelago di competenze, saperi, creatività che la Basilicata genera (oltre 3mila laureati l’anno, di cui 800 dall’Unibas).

Questi lucani stanno nel mondo non più come si stava negli anni Sessanta, ma ci stanno parlando lingue straniere, da esperti informatici, chimici, ingegneri, ecc. Insomma c’è una Basilicata di saperi, conoscenze, idee, che ha in vari campi punte avanzate, “eccellenze”, se si vuole chiamarle così.

Questo vasto campo deve diventare protagonista e artefice della Basilicata di oggi e di domani, evitando di replicare acriticamente e meccanicamente schemi già sperimentati e obsoleti, ma cercando originali sintesi fra tradizione e innovazione, ciò che è stato, ciò che è rimasto e ciò che deve essere.

Così, forse,  il tempo del movimento e il movimento del tempo non si contraddiranno, ma si esalteranno reciprocamente.

La cultura deve essere, oggi più di ieri, la nostra carta vincente.

Le voci di dentro (del sapere, della letteratura, della poesia, del cinema) possono aiutare a trovare una linea che veda insieme consapevolezza di sé, del passato e della sua ricchezza, e capacità di proseguire in altre e più moderne forme questo “incantesimo”, dove la linea lunga dei paesaggi, la vastità degli  spazi, la bellezza dei luoghi, la loro affascinante immobilità, non siano retaggio, conservatorismo o arretratezza, ma originale potenzialità e opportunità per vivere meglio e per continuare a scoprire la Basilicata  abbiamo attraverso un viaggio, che abbiamo già iniziato, alla Milanesiana ha conosciuto un’altra tappa, e che vogliamo continuare.

*Presidente del Consiglio Regionale

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