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UN po’ sbigottito ho seguito il dibattito sul “futuro delle città” riportato su queste pagine. Secondo un indomito riflesso pavloviano sembra che ogni provocazione di “senso” sulla politica e sulla cultura in Basilicata porti i più ad esprimersi con argomentazioni apparentemente profonde, e invece vergate da una profonda genericità.  Il personale sbigottimento deriva dal fatto che questo processo sia oramai dato come acquisito e, dunque, ingerito acriticamente.

Riassumendo brevemente i termini della discussione c’è chi, astoricamente e illogicamente, ritiene che perché si abbia una visione sul futuro di questa Regione sia necessario il ricorso agli istinti viscerali, e dunque irrazionali, della paura, quando non addirittura della morte. Dall’altro c’è chi risponde calando l’asso della “lucanità”, qualsiasi cosa questo termine voglia dire, sino ad invocare le energie migliori per “elaborare un documento sull’antropologia sofferente della Basilicata”. E questo senza rendersi ironicamente conto che l’auspicato ed ingrato compito è stato già abbondantemente supplito dai coinvolti in questo “dibattito” circolare e lunare.

Il vero problema è che la grandiosità delle domande che la gente normalmente si pone è inversamente proporzionale all’utilità delle eventuali risposte. Le cosiddette “domande di senso” costituiscono l’esempio tipico: invece di domandarsi come sia possibile poter fruire di tecnologie estremamente avanzate per la cura di malattie mortali fino a pochi anni fa, e indirizzare gli sforzi nella direzione di tutto ciò che genera benessere e salute, ci si chiede qual è il senso della vita, o se le città hanno un’anima e, ancora peggio, anche dove si potrebbe trovare: nel centro o nella periferia? E non ci si accontenta della semplice risposta che non solo un senso della domanda non c’è, ma che non ha neppure senso chiedersi se ci sia.

Ammesso poi che ne abbia uno, di senso, esso non può che essere prettamente linguistico, non di certo politico o culturale. E non è una mia idea, ma solo una formulazione colloquiale di uno dei maggiori teoremi di logica del Novecento, dovuto a Kurt Goedel. Dunque chi pensa il contrario è, letteralmente, un illogico. Ma questo, a quanto pare sfugge ai più, che invece si inerpicano spudoratamente sulle comode strade della banalità. Che poi le banalità siano appunto banali, e che questo non necessariamente implichi che siano anche false, è un altro paio di maniche. È come un tiro alla roulette: dire che uscirà o rosso o nero è una banalità, ma non per questo si mente. E questo però, paradossalmente, conferisce un’aura di autorevolezza a chi esprime opinioni del genere. Il fatto è che, purtroppo per noi, meno le domande sono sensate e più suonano bene: non a caso se le pongono da millenni, senza però venirne a capo, i poeti, i romanzieri, i teologi e i filosofi.

Quali sono le conseguenze? Il risultato peggiore dell’accettazione acritica di questi avulsi discorsi è la creazione, o perpetuazione, di una società che non vive della e nella realtà, ma che è immersa nella finzione generalizzata. Una finzione in cui assumono carattere rilevante persino affermazioni ineffabili, ad esempio quella secondo cui noi lucani saremmo ossessionati dalla ricerca di una “verità originaria andata persa”, in quanto “la principale domanda in Basilicata non è di lavoro e di reddito”, come tutti ben sappiamo, “ma di significato”.  Primo fra tutti il significato di queste affermazioni, suppongo.

Ma ciò che più risulta oggettivamente stonato e fuori luogo, in questo approccio pseudoculturale alle questioni, è la dura presa di posizione, reazionaria ed ottocentesca, contro la scienza e la tecnologia, che si continua, per ignoranza o malafede, a confondere con lo scientisimo, infame etichetta creata ad arte dai bigotti di ogni tempo per sminuire l’impatto dirompente del pensiero razionale sulla società favolistica e acritica. L’alternativa proposta è illuminante: una nuova “ritualità” religiosa, un gioioso “ritorno al passato”, che ignora da un lato ciò che già Freud affermava, definendola non a caso come “psicosi collettiva”, e dall’altro le dure prese di posizione dello stesso De Martino che, nel suo “Sud e magia”, indicava proprio questo approccio come origine dell’imbarbarimento culturale in cui siamo tuttora invischiati.

Ma anche questa “dirompente proposta” è roba vecchia: nel corso dei secoli, i detrattori della scienza hanno, sbagliando di grosso, sempre prefigurato gli scenari più catastrofici. “L’apprendista stregone” di Goethe, il “Frankenstein” di Mary Shelley, il “Dottor Jekill e Mister Hyde” di Stephenson, il “dottor Moreau” di Wells, solo per citarne alcuni, hanno sempre messo in guardia sul pericolo che le scoperte scientifiche potessero scappare di mano agli scienziati e provocare guai inimmaginabili alla società. Nessuno però si è mai cimentato con i danni che comporta il continuare ad immaginare ed auspicare una società ancora retta su dogmi irrazionali, siano essi di natura religiosa, politica o culturale. O forse non lo si è mai fatto perché il risultato di questo triste esperimento è sotto gli occhi di tutti, ogni giorno.

Personalmente ritengo dunque che, se una riflessione deve essere fatta sul futuro di questa Regione, sia necessario innanzitutto porre delle questioni e delle proposte basate sul “metodo scientifico”: evidenze empiriche, dettate dall’osservazione, ipotesi di sviluppo e teorie da sottoporre al vaglio della verifica per testarne l’efficacia. Solo questo approccio può condurre ad una società critica e propositiva, in grado di generare anticorpi efficaci alla mala gestione della cosa pubblica, ad uno sviluppo concreto e tangibile, non secondo astratti sofismi o fantasiosi richiami ad una mitologica fraternità del passato, quanto proponendo e rendendo fattivi alcuni criteri, scientifici e dunque di buon senso, quali verificabilità, merito, competenza.

Tempo fa proposi, e non ironicamente, un corso di scacchi obbligatorio per la formazione delle classi dirigenti, invece delle roboanti scuole di formazione di cui ancora oggi si invoca la costituzione. L’effetto potrebbe essere destabilizzante ed immediato: imparare a meditare prima di muovere, ben sapendo che il tempo concesso per ogni mossa è limitato; ricordando che ogni mossa ne provoca un’altra dell’avversario, difficile ma non impossibile da prevedere; e pagando per le mosse sbagliate, che sono sempre irreversibili. E non sarebbe male se a un corso del genere ci andassero anche tutti i cosiddetti “uomini di cultura”, che potrebbero così fare qualcosa di più utile rispetto al blaterìo afono a cui ci hanno abituato.

Questa sì che sarebbe un’impostazione di senso, ma non nel significato “sentimentalista” che ci continuano a propinare, che per inciso nulla ha a che vedere con il lirico o il poetico, quanto in quello indicato dal genetista Cavalli-Sforza. Una “questione di senso” molto laica, che altro non è che “conoscenza e responsabilità”.

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