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Anche quando si parla di cave l’Italia si divide. A livello normativo, la situazione è leggermente migliore al centro-nord, dove il quadro delle regole è in gran parte completo, con Piani cava (lo strumento che indica le quantità di materiale estraibile e le aree dove è consentita l’attività di cava) periodicamente aggiornati, mentre non vi sono Piani in vigore in Veneto, Abruzzo, Molise, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Sicilia, Calabria e Basilicata. Il Piemonte ha solamente Piani di indirizzo e rimanda alle Province l’approvazione del Piano.

Lo rileva il “Rapporto cave 2014” di Legambiente, registrando una situazione di incertezza che lascia tutto il potere decisionale in mano a chi concede le autorizzazioni. Considerando il peso che interessi economici e criminalità organizzata, in particolare nel Mezzogiorno, hanno nella gestione del ciclo del cemento e nel controllo della aree cava, sottolinea Legambiente, è necessario correre ai ripari e regolamentare il settore.

Prelevare e vendere materie prime del territorio è un’attività altamente redditizia eppure i canoni di concessione pagati da chi cava sono spesso irrisori, se non inesistenti. In media infatti, si paga il 3,5% del prezzo di vendita degli inerti ma esistono situazioni limite come nel Lazio, in Valle d’Aosta e in Puglia dove il prelievo degli inerti costa solo pochi centesimi e regioni come Basilicata e Sardegna dove si cava addirittura gratis. E in Basilicata di cave attive ce ne sono 61, 32 invece sono abbandonate. Ma nel rapporto si dice altro: su 804mila tonnellate di sabbia e ghiaia estratta in basilicata quanto si guadagna? Zero. E si potrebbero invece guadagnare circa due milioni e mezzo di euro. Ma non solo sabbia e ghiaia: nella nostra regione si estraggono 34mila tonnellate di pietre ornamentali e 375mila tonnellate di argilla, tutte gratis.

Le entrate degli enti pubblici attraverso i canoni di prelievo, rileva Legambiente, sono dunque ridicole in confronto ai guadagni del settore: il totale nazionale dei canoni pagati nelle diverse regioni, per sabbia e ghiaia, è arrivato nel 2012 a 34,5 milioni di euro, mentre il ricavato annuo dei cavatori risulta pari a un miliardo di euro.

Ad emergere è una netta differenza tra ciò che viene richiesto e incassato dagli enti pubblici e il volume d’affari generato dalle attività estrattive in tutte le regioni, in quelle dove canone richiesto non arrivano nemmeno ad un decimo del loro prezzo di vendita. «In un periodo di tagli alla spesa pubblica – dichiara il vice presidente di Legambiente Edoardo Zanchini – è inaccettabile che un settore tanto rilevante da un punto di vista economico e ambientale venga completamente trascurato dalla politica nazionale. E’ possibile creare filiere innovative di lavoro e ricerca applicata, ridurre il prelievo di cava attraverso il recupero di materiali e aggregati provenienti dall’edilizia e da altri processi produttivi, ma serve intervenire su una normativa nazionale vecchia di quasi 90 anni, per ripristinare legalità, trasparenza e tutela».

Raggiungere questi obiettivi in tempi brevi, secondo Legambiente è possibile, e per questo l’associazione chiede: di rafforzare tutela del territorio e legalità (attraverso controlli, individuazione delle aree da escludere e delle modalità di escavazione, obbligo di valutazione di impatto ambientale, ecc.); aumentare i canoni di concessione per equilibrare i guadagni pubblici e privati e tutelare il paesaggio (gli attuali 34,5 milioni di euro guadagnati dalle regioni italiane per l’estrazione di sabbia e ghiaia, potrebbero diventare ben 239 milioni, se fossero applicati i canoni in vigore nel Regno Unito; in Sardegna si potrebbe passare da 0 a 17 milioni di euro); spingere l’utilizzo di materiali riciclati nell’industria delle costruzioni.

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