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QUANDO NON esistevano reti di informazione e comunicazione che mettessero in relazione territori e paesi, quanto più questi erano isolati e emarginati, tanto più la scuola fu mezzo di comunicazione, elevazione, di identità e di garanzia di lavoro. All’inizio del XX secolo è documentato un impegno di Giacomo Matteotti per la istruzione. Vi lavorò, sin dalla elaborazione della tesi di laurea, convinto che rispetto all’enorme condizione di miseria in cui versava la gente del Polesine la scuola rappresentasse la possibilità di dare un contributo per aprire prospettive di giustizia sociale. Quando fu amministratore nel Polesine, individuando negli amministratori del suo territorio la responsabilità di non aver affrontato lo stato di analfabetismo, nel 1904 fondò un circolo di cultura a Fratta; tenne nel 1913 Conferenze d’istruzione popolare; nel ’14, toccò la condizione dei maestri, affrontando poi lo stato della edilizia scolastica per la quale studiò la possibilità di consorziare i comuni; ed infine vide la urgenza di biblioteche. Nel ’19, al Congresso dei comuni socialisti sferrò un duro attacco al Gruppo Parlamentare Socialista per la sua indifferenza al problema della istruzione.
Alla Camera intervenne più volte contro le scelte di bilancio che prevedevano investimenti insufficienti come quelli previsti da Luzzatti “sul bilancio della istruzione e dei lavori pubblici”. E’ del 6 luglio ‘20 la proposta di legge sugli istituti di educazione per l’infanzia: poi quella per la istituzione di asili; diede il suo contributo sulla discussione se, estendendosi l’obbligo, questo dovesse essere affidato ai Comuni e su come garantire i fondi scolastici sino al 14° anno d’età, avendo avuto fondi dal Ministro del Tesoro.
Un impegno per certi versi analogo che si mosse avvalendosi di una dichiarata dimensione regionalista fu quella di Luigi Saraceni di Castrovillari, sin dal 1913.
Ricordando che Minghetti e Quintino Sella pur ribadendo l’importanza dell’ unità politica, diplomatica, militare avevano ricordato quanto sarebbe stato necessario non trascurare le tradizioni delle diverse regioni, per altro già indicate da Iacini, Villari, Sonnino, Franchetti, Colaianni, Nitti, Fortunato, Caraballese, Niceforo, Lambroso, parlava di regionalismo inteso non come “gretto campanilismo o separatismo” ma necessità di delegare alcune funzioni che attualmente esercitava lo Stato alla diretta competenza di organi locali: è “concezione di giustizia ed opera di perequazione di fronte ai benefici della civiltà nazionale i quali devono essere distribuiti in modo che le regioni meno prospere e più trascurate si elevino il più rapidamente possibile, movimento di rigenerazione di un popolo mediante una legislazione adatta alle sue condizioni di vita contro la tirannide del regime accentratore”. Avendo l’Italia “necessità di pensiero alto e di coscienza profonda” ed essendo “la salute di un paese principalmente nelle grandi idealità che ne sorreggono il cammino con virtù di libero intelletto” riconosceva nella scuola “la fucina delle grandi idealità”. Ricordando il pensiero di Mazzini, ammoniva che la scuola come lo Stato non fosse né confessionale né atea ma estranea ad ogni controversia di religione; che la scuola primaria nelle sue varie specializzazioni classiche scientifiche tecniche industriali agrarie coloniali d’arte e di mestieri , nonché gli istituti sussidiari della scuola rispondessero alla funzione di dare a tutti istruzione “ veramente obbligatoria e gratuita” .
La lotta contro l’analfabetismo fu l’impegno assunto ed espresso dalla editoria scolastica. P. De Grazia nel suo almanacco-sussidiario Basilicata nella edizione Paravia,nelle prime pagine dedicate al mese di gennaio affrontava il tema della istruzione obbligatoria per legge, una scommessa negli anni successivi alla prima mondiale, così che in ogni paese e frazione vi fosse una scuola e indegno venisse considerato chi non vi mandasse i figli, anche perché gli stati esteri chiedevano l’istruzione come pre requisito per l’immigrazione. “Mannagge mannagge ca se l’attàne m’avesse mannate a scola quanne era ceninne , mo ora sarria sciute ngrazie re Die a l’Amèreca a farme lu cenne, come se lu so giute a fa tant’aute che s’ane mbarate lu beabà” riporta De Grazia da un passo di G. Stolfi . Il testo registrava, di seguito, l’esodo registrato a cominciare dal 1876 nella Statistica dell’emigrazione italiana a cura del Ministero dell’Agricoltura con il primato di Potenza e Lagonegro; nel 1887 arrivava a dodicimila unità con oscillazioni che nel decennio successivo non mutarono la consistenza e la persistenza del fenomeno. Aggiungeva che, in questo scenario, erano benemeriti le scuole per gli adulti nate in Basilicata per l’impegno dell’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno e l’impegno di privati, come a Rivello quello di un contadino, Giuseppe Flora.
Malgrado la scuola di massa e la fitta rete medio-informatica oggi non siamo lontani da quei problemi: i territori devono affrontare nuovamente un problema di emigrazione, quello di una nuova alfabetizzazione”, per i giovani ancora senza occupazione, soprattutto per quelli che chiamiamo invisibili, o neet. Forse anche per garantire “necessità di pensiero alto e di coscienza profonda”.

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