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PIÙ che modernità liquida, si potrebbe chiamarla modernità liquidatoria. Almeno in politica. Tramontato l’invaghimento per il federalismo e dopo che per anni era stata tutta una corsa a sopravanzare l’avversario nel vellicamento dei territori, oggi la parola chiave non è semplificare o centralizzare ma destrutturare. Via le Comunità Montane, via le Province, via le micro Regioni, via i piccoli Comuni. Ci fosse stato al governo l’omino di Arcore, si sarebbe potuto scomodare Adamo Smith e leggere nella tendenza in atto un disegno di Stato liberale.
C’è chi la chiama, in maniera roboante, ammodernamento dell’architettura della Repubblica. A me pare, nel migliore dei casi, l’efficientismo della volontà, più spesso il cedimento alle logiche della comunicazione politica, che nulla hanno a che vedere con un miglior funzionamento delle istituzioni democratiche. L’asfissia a cui sono state ridotte le Province, lasciate in balia del loro destino, nel silenzio assordante di troppi, è solo l’ultimo e più emblematico caso dell’approssimazione con cui si governano certi processi. Beninteso, non è in discussione l’opportunità di intervenire per razionalizzare il funzionamento di una macchina obsoleta, quanto piuttosto l’approccio superficiale, se non in malafede, che talvolta emerge. Non interessa il modo, né gli “effetti collaterali”, interessa solo il risultato. C’è che dice che dietro tutto questo vi sia una strategia, si citano i soliti poteri forti e addirittura la massoneria. Quasi quasi non resta che sperarlo. Sarebbe meglio di quello che appare: una risposta emergenziale e talvolta populistica a difficoltà profonde ed ataviche del sistema Italia. Anche la partita che riguarda i comuni è gestita alla stessa stregua. La giusta spinta all’associazionismo
ed alla costituzione delle unioni dei comuni viene proiettata su un tessuto istituzionale che, nella stragrande maggioranza dei casi, trattandosi di piccoli e piccolissimi enti, non possiede il know how tecnico-politico per governare un processo tutt’altro che banale, peraltro, all’interno di un quadro normativo in continua e schizofrenica evoluzione. Il disorientamento è palpabile e la paralisi è dietro l’angolo. La questione è datata e non riguarda certamente solo il governo centrale. Alcune “riforme della governance”
realizzate a livello regionale negli ultimi anni hanno contribuito a rendere il quadro ancor più confuso. Si è passati in rapida successione dall’ipotesi di sostituire le vecchie Comunità Montane con le Comunità Locali, enti dotati di personalità giuridica, all’invenzione delle Aree Programma, degli ologrammi istituzionali.
In realtà li vedi ma quando provi ad afferrarli non ti resta niente in mano. Poi i nodi arrivano al pettine. Personale caricato sul groppone della Regione che adesso si cerca di ricollocare.
Gestione della forestazione affidata ai comuni capofila con difficoltà operative che si sono palesate ad ogni inizio di cantiere. Un patrimonio pregresso che va comunque gestito, tant’è che le Comunità Montane sono sì commissariate ma nient’affatto scomparse. Oggi, l’idea che si sta partorendo è quella di trasformare d’emblée le sette Aree Programma in altrettante Unioni dei Comuni.
Una buona soluzione, se l’obiettivo è quello di mettere una pezza ai buchi prodotti dalla prima “riforma”, un prospettiva piena di incognite, invece, per i Comuni.

 

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