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Antonella Ciervo

Il vero senso della Stato, sta in quella parte del proprio dovere che viene svolta con serietà e impegno ogni giorno.
E’ questo lo spirito dei servitori dello Stato, degli uomini delle forze dell’ordine che ieri a Matera hanno commemorato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a 17 anni dagli attentati che li hanno uccisi insieme agli uomini delle loro scorte, rispettivamente il 23 maggio e il 19 luglio del 1992. Fu, quella, una stagione di sangue che giunse fino alla cattura del boss Franco Rina e alla scoperta di una parte di quel sistema illegale che aveva garantito l’impunità ai “padri” di Cosa Nostra.
Dal questore di Matera, Carmelo Gugliotta, è giunto il vero senso del sacrificio dei due magistrati, la lettura più adeguata, lontana dalla retorica, di una pagina così dolorosa della lotta alla mafia che ancora oggi lascia aperti interrogativi nella società civile.
«E’ la memoria che ci deve condurre nella vita quotidiana. Nella mia stanza – spiega – ho una foto di Falcone e Borsellino che mi aiuta a ricordare che non devo essere un grande uomo, ma fare ogni giorno il mio dovere. Per combattere la mafia, diceva Falcone, non servono eserciti, ma maestri. E’ necessario, infatti, lavorare sulla crescita delle giovani generazioni, sulla loro concezione di legalità».
Descrivendo l’atmosfera della Procura di Palermo all’epoca del suo arrivo alla squadra Mobile, nel 1985 «Era appena stato ucciso Ninni Cassarà, una settimana prima era toccato a Montano. Su una lapide all’ingresso, erano riportati i nomi di tutte le persone morte nell’adempimento del loro dovere. Ricordo ancora oggi l’autista di Cassarà e tutte le persone che avevano lavorato lì e che erano morte per mano della mafia. Quello fu, per me, un momento esaltante che mi ha segnato anche nella mia attività futura. Ho potuto conoscere Falcone meglio rispetto a Borsellino che, invece fu trasferito a settembre dello stesso anno alla Procura di Marsala. Con lui mi incontravo ogni domenica in chiesa, a messa.
Di Falcone ricordo il suo incredibile impegno: entrava alle 9 del mattino nella famosa stanza-bunker per uscire alle 22. Lavorava con convinzione e ha dimostrato che tutti insieme si può sconfiggere la mafia. E’ questo il messaggio che voleva dare e che è rimasto. Se penso ancora oggi a Falcone e Borsellino – ha ricordato con commozione Gugliotta – non li vedo come eroi, ma martiri. Coloro, cioè che per un ideale accettano la morte come conseguenze delle proprie scelte. Tutti e due erano coscienti del proprio destino. Se negli anni successivi molte operazioni di polizia sono state possibili, è grazie a loro che hanno operato e trasmesso una certa mentalità a tutte le forze dello Stato».
Il rapporto con il fenomeno mafioso, con quella cultura dell’illegalità che diviene strumento di avanzamento sociale, non appartiene più ad una particolare area geografica, ma piuttosto ad un meccanismo mentale e civile che consente ancora oggi alle organizzazioni criminali, di assoldare forza-lavoro tra le categorie messe alla prova della miseria, dalla disoccupazione.
C’è, insomma, un’origine culturale della logica mafiosa che ancora oggi è difficile da scardinare e che si trasforma in impegno costante per le forze dell’ordine chiamate a svolgere un ruolo che a volte contrasta pesantemente la tranquillità con cui le organizzazioni criminali gestiscono interi territori.
Per concludere il suo intervento, il Questore ha scelto una frase di Gandhi che diceva: «Il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano amore e lottino per la vita».

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