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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Di provocazione in provocazione. La Lega, nella sua redditizia rozzezza, è ormai condannata, pur di “fare notizia”, a occupare quotidianamente la prima pagina dei giornali, a esibirsi volta a volta in “sparate”, cui segue, con desolante puntualità, il coro di proteste, la rettifica leghista, sino alla prossima dichiarazione, sempre più paradossale, sempre più inattendibile. Dopo la levata di scudi contro il pericolo di presidi del Sud in territorio padano, pericolo fugato dal fulgido provvedimento del Consiglio Provinciale di Vicenza cui ho dedicato Ossimori della scorsa settimana, abbiamo ora il test sul dialetto, ovviamente padano, cui sottoporre i professori che, pur nella loro ontologica inferiorità meridionale, aspirino a insegnare in Padania. Rozzezza che si aggiunge a rozzezza, stupida arroganza che si aggiunge a stupida arroganza. Così facendo, si copre un problema che pure esiste e che richiederebbe ben altro spessore di approfondimento. Poniamo allora la questione in altri termini e vediamone i tratti essenziali. Partirei da un’affermazione che francamente mi costa non poco: la Lega in questo ha ragione. L’atteggiamento contro il dialetto, il disprezzo riservato a esso è un tratto costante nella storia del nostro Paese. All’indomani dell’Unità d’Italia vi fu rinnovato interesse per le tradizioni popolari, per le culture locali e, quindi, anche per il dialetto che di tali culture è elemento fondamentale. Si trattò di un processo teso a presentare le regioni del Mezzogiorno quali sedi privilegiate dell’arcaico, del tradizionale, dell’arretrato, per cui erano necessari adeguati provvedimenti per inserire nell’alveo della modernizzazione questa parte “arretrata” del Paese; gli studi demologici si svilupparono principalmente nel Sud d’Italia, quasi esso soltanto costituisse l’ambito del folklore. Si svilupparono così due processi complementari che Mariano Meligrana, al cui sguardo lucido ci dovremmo rifare ancora oggi, e io, in un’opera dedicata alla Calabria negli studi di demologia giuridica, denominammo “folklorizzazione del Mezzogiorno” e “meridionalizzazione della scienza folklorica”. La retorica prevalente però, ruotava attorno all’esaltazione dell’unità: di lingua, di sentire, di cultura nell’accezione più ampia, anche se tale retorica contraddiceva clamorosamente la realtà concreta, segnata, invece, dalle diversità culturali. Alla scuola venne demandato il compito di questa forzata italianizzazione; per quanto riguarda la lingua, la famigerata matita rosso e blu fu mezzo e simbolo della normalizzazione imposta al linguaggio, della sua coattiva italianizzazione. Il regime fascista potenziò il disprezzo per il dialetto. “Non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto”, ammoniva una delle direttive ai giornali emanate nel 1931 da Gaetano Polverelli, capo ufficio stampa di Mussolini. “L’incoraggiamento alla letteratura dialettale” era considerato “ in contrasto con le direttive spirituali e politiche del Regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione sono residui dei secoli di divisione e servitù”. Nel secondo dopoguerra il dialetto suscitò l’interesse degli intellettuali e degli artisti più sensibili; soltanto alcuni esempi: il Luchino Visconti de La Terra trema, il cui sonoro era dato da un siciliano strettissimo che al festival di Venezia fu necessario sottotitolare in italiano; l’Ignazio Buttitta de I fratelli Cervi e de Il Lamento per Turiddu Carnevale; il Pasolini friulano delle prime poesie, e così via. L’uso del dialetto rinviava così a una scelta di campo culturale e politica. I risultati costituiscono ormai acquisizioni che fanno parte della storia intellettuale del nostro Paese. Negli anni Sessanta e Settanta la cultura giovanile di protesta assunse il dialetto come forma contestativa: “Mo’ che il tempo si avvicina” fu la testata di un giornale di Lotta Continua; Reprennemose er dialetto campeggiava tra le scritte nell’università La Sapienza di Roma nel ’77. Successivamente, la vita sociale, e quindi anche i registri linguistici, vennero sommersi dalla melassa televisiva che appiattisce, banalizzandole, qualsiasi peculiarità linguistica imponendo di fatto un gergo autoritenentesi raffinato, in realtà goffo e triviale. In questi giorni Patrizia Valduga ha notato: “L’italiano che sento in tram, in metropolitana, nei caffè mi sembra sempre più artificioso e pretenzioso. Per esempio, la bella congiunzione ‘o’ è ormai soppiantata da un orrendo e scorrettissimo ‘piuttosto che’, i ‘problemi’ sono scalzati dalle ‘problematiche’, i ‘temi’ dalle ‘tematiche’, i ‘tipi’ dalle ‘tipologie’, i ‘metodi’ dalle ‘metodiche’….Tempi duri, di questi tempi anche per i ‘tempi’ cui ormai si preferiscono le ‘tempistiche’. Che schifezza”. La rivalutazione del dialetto, per quanto rozzamente motivata, per quanto usata come clava antimeridionale, coerentemente con la cultura xenofoba e razzista di cui la Lega è intrisa, va comunque in controtendenza. Non pochi, tenendo conto della pluralità di discipline da insegnare, ritengono che difficilmente potrebbero essere insegnate anche la storia e la cultura locale. La questione comunque non è di aggiungere, semmai, una materia alle altre, bensì di porre il problema del contesto culturale dei destinatari dell’insegnamento scolastico che vivono immersi comunque in una cultura che ne condiziona anche, e decisivamente, le modalità di apprendimento. Già in anni lontani Jean Jacques Rousseau notava: “per insegnare il latino a Giovannino non basta conoscere il latino, bisogna soprattutto conoscere Giovannino”. Che gli insegnanti conoscano i dialetti e la cultura dei ragazzi dei paesi nei quali insegnano (ovviamente, il discorso è ugualmente valido per eventuali insegnanti settentrionali che operino nel Sud) mi sembra cosa altamente auspicabile. D’altronde vorrei rilevare che oggi, per quanto contraddittoriamente, vi sono numerosi segni di un nuovo interesse per il dialetto. La Mostra di Venezia aprirà con Baarìa di Giuseppe Tornatore che avrà una doppia versione: in Sicilia e all’estero sarà in siciliano sottotitolato in italiano, nel resto d’Italia sarà in un italiano “sporco” di siciliano; come la seguitissima soap Agrodolce su RaiTre; slogan pubblicitari utilizzano a man bassa il dialetto, come la biondina di una carne in scatola che esclama “bedda magra!”, mentre un fortunato romanzo attuale, quello di Giuseppina Torregrossa, ci narra Il conto delle minne. Scelte artistiche e utilizzazioni stereotipe si frammischiano introducendo così ulteriore confusione. Abbiamo così una pluralità di dialetti e una pluralità di usi, spesso strumentali, dei dialetti. Per quanto riguarda la Calabria, vien voglia di ripetere quanto “il calabro dialetto” disse alla lingua italiana, secondo l’abate calabrese Conìa, notevole poeta dialettale:”Mali di tia non dissi/ a mia dassami stari /non mi stari a frusciari/ chiju accuntu”.

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