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di LEO AMATOSpighe biondo cenere dai lunghi baffi neri, alte più di un metro e ottanta, e piegate dall’azione del vento e della pioggia.
Il grano a secco ha un valore proteico che si aggira attorno al quindici per cento, e viene ancora lavorato alla maniera antica, con le trafile in bronzo, e l’essiccazione lenta. È così che nascono spaghetti, maccheroni, e pennette “senatore Cappelli”. Niente a che vedere con l’autore de “La vedova, il santo, e il segreto del pacchero estremo”, che pure porta lo stesso nome, e ironizza amabilmente sulle manie dei palati più fini. La “senatore Cappelli” costa giusto un poco più delle altre marche da supermercato, ma gli intenditori garantiscono che la differenza si senta: il profumo di grano, la consistenza in bocca. Praticamente è tutta un’altra storia.
C’è soltanto il rischio che un boccone di cotanta prelibatezza vada storto al presidente uscente della Provincia di Matera, Carmine Nigro, che è stato appena condannato dalla Corte dei Conti a risarcire quattrocentomila euro in compensazione del finanziamento pubblico di tre milioni e mezzo di euro per la costruzione del mulino Cerere nella zona industriale La Martella di Matera.
Il progetto era tra quelli approvati nel Patto territoriale di Matera con il ministero del Tesoro, stipulato a Roma nel 1999, e prevedeva la realizzazione di un articolato complesso industriale per la produzione della “Pasta di Matera”, derogando alle normative comunitarie che da un po’ di tempo a questa parte hanno bloccato i contributi per l’industria dei mulini, nel tentativo di irregimentare un’attività che è considerata di importanza strategica.
L’eccezione era motivata con il fatto che nel progetto originario si faceva riferimento a un prodotto ad altissima caratterizzazione geografica, ottenuto esclusivamente con il pregiato grano duro delle colline materane, ma nel settembre del 2005, dopo un avvio problematico, Cerere s.r.l. modificava il suo statuto e affittava la gestione dell’impianto a una società di Bari, la Tandoi s.r.l., e il progetto avrebbe preso un’altra strada.
Per la procura contabile le decisioni in assemblea sono state il frutto della volontà dell’azionista principale, il Consorzio agrario di Lucania e Taranto, contro un agguerrita, ma impotente minoranza di soci, composta dagli imprenditori agricoli della zona.
Fatto sta che nemmeno due mesi dopo, alle 5 e mezza di mattina del 10 novembre 2005, i carabinieri di Matera stavano pattugliando la zona industriale, quando videro arrivare sette autotreni provenienti dal porto di Bari, e decisero di intercettarli.
Si scoprì che trasportavano circa mille e cinquecento tonnellate di grano duro caricato da una nave “battente bandiera slovacca”, denominata “Chirò”, e i camionisti riferirono di dover tornare per caricarne ancora.
Intervenì anche il Nucleo antisofisticazioni di Potenza, e a distanza di qualche mese si scoprì che era grano di provenienza greca.
Carmine Nigro in qualità di presidente della Provincia, e responsabile dell’attuazione del Patto territoriale di Matera venne avvisato sia del subentro della società barese nella gestione dell’impianto, sia dell’ingresso di queste grosse partite di grano provenienti dalla Grecia, e avrebbe avuto il compito di impedire entrambe le cose.
A maggior ragione, due anni dopo, bisognava intervenire per bloccare la cessione definitiva alla Tandoi dell’impianto, che era stato modificato per effettuare anche lavorazioni in conto terzi di varietà diverse dalla “senatore Cappelli”.
Per i magistrati quel finanziamento in deroga alle normative comunitarie era subordinato a un requisito soggettivo e oggettivo, e la cessione delle quote, e la trasformazione dell’impianto stavano minando entrambi.
Per tutto questo bisognava revocare il finanziamento, ma il presidente della Provincia, per la procura: “Ha tenuto un comportamento oltremodo temporeggiatore e omissivo”, limitandosi “a un istruttoria superflua e defatigante”, e arrivando in conclusione ad approvare la modifica del soggetto gestore.
Nigro si era difeso evidenziando che la crisi produttiva stava mettendo a rischio di fallimento la società, e che i fondi di conseguenza si sarebbero persi, senza alcuna utilità anche in termini di occupazione.
Il collegio è andato dritto per la sua strada e ha accolto le richieste dell’accusa. Resta sospesa solo la parte che riguarda il ruolo rivestito in quest’affare dalla Tandoi e dal defunto Consorzio agrario, ma per gli stessi fatti anche la procura della Repubblica di Matera ha ipotizzato una serie di reati.
Quello che è certo è che a distanza di un paio d’anni il mulino è stato abbattuto, dei quarantaquattro dipendenti previsti ne lavorano veniquattro, e il marchio “Pasta di Matera” è finalmente arrivato sul mercato, giusto una ventina di giorni fa.
Al telefono Carmine Nigro è apparso sereno, e ha annunciato che d’accordo con il suo legale presenterà appello contro la sentenza: «Intanto – ha dichiarato – le richieste dell’accusa sono state più che dimezzate, ed è chiaro che di persona non ho mai erogato nessuna somma alla Tandoi.
Sono sicuro che in secondo grado si riuscirà a dimostrare che ho soltanto seguito puntualmente le indicazioni che mi arrivavano dal ministero».

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