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di BATTISTA SANGINETO
Un’altra estate, in Calabria, va consumandosi. Un’estate terribile e dolente come tutte le altre da tempo, ormai, immemorabile in questa regione. Alle rovine dei luoghi, evocate da Vito Teti, si accompagnano quelle della morale individuale e collettiva. Lo stato della sanità calabrese è paragonabile, da sempre, solo a quello dei paesi del terzo mondo con le inefficienze, le incompetenze, gli sprechi e le malversazioni proprie di un paese dell’Africa. Il mare è, senza possibilità di smentita, una fogna a cielo aperto perché nessun depuratore, lo certificano le indagini della magistratura, funziona come dovrebbe nonostante le accorate dichiarazioni dei sindaci e degli amministratori locali tese a smentire o sminuire le condizioni in cui realmente versano quasi tutte le nostre coste e le nostre acque (altro che mare da bere!). Del resto sono quegli stessi amministratori che, sebbene non siano stati capaci di farli funzionare, sono stati solerti, da generazioni, nell’approvare o addirittura, favorire la cementificazione del loro territorio cancellando il paesaggio naturale e storico di questa regione con la complicità dei cittadini, dei progettisti, delle imprese edili, della cosiddetta “società civile”. Anche le montagne ed i boschi sono in stato di degrado e di abbandono irreversibile come testimoniano i mucchi di spazzatura sotto i faggi di Montescuro o sotto i pini di Lorica. Nelle nostre campagne dilaga quella orrenda “edilizia spontanea” che non ha memoria alcuna per le forme e le regole delle tradizionali case rurali. Le nostre colline e le nostre valli sono state cementificate senza pietà o, peggio, sono state trasformate in discariche di materiale radioattivo, come dimostra la recente indagine della Procura di Paola. Il paesaggio calabrese è, ormai, un paesaggio senza alcuna armonia, un paesaggio senza memoria. Un paesaggio nel quale la natura è stata, quasi dappertutto, brutalmente violentata e cancellata dalla mano dell’uomo che è stato capace di sostituirle solo un angoloso ed irto groviglio di asfalto e di cemento. La devastazione del paesaggio è la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che presuppongono la comprensione profonda di quanto circonda gli uomini e, forse, i calabresi, per la loro storia, non hanno mai introiettato questi canoni etici ed estetici. Il riconoscimento della bellezza è, per Sigmund Freud, la comprensione profonda della varietà e dell’interdipendenza di ciò che ci circonda: affetti, legami parentali, case e, quindi, anche il paesaggio. L’incapacità di cogliere la bellezza è, dunque, una condizione patologica della psiche, quella individuale e quella collettiva. I calabresi vivono nella bruttezza, non ci fanno più caso e per questo, come scrive Teti, continuano ad erigere imponenti, quanto inutili, palazzi a tre, quattro, cinque piani in cemento armato, foratini non intonacati, tetto in lamiera ed imposte in alluminio anodizzato “realizzato” in sfumature che vanno dal bronzo all’argento nel più puro stile “non-finito calabrese”. Come ho già scritto su questo giornale, sono convinto che la bruttezza produca assuefazione non solo all’assenza di regole estetiche, ma anche di quelle morali. La bruttezza genera una immoralità diffusa e profondamente radicata nell’anima dei calabresi. La bruttezza genera ’ndrangheta. Il paesaggio calabrese con le sue bellezze naturali, le sue rovine, i suoi monumenti, le sue città antiche, i suoi centri storici e le sue chiese è irrimediabilmente perduto. La Calabria è perduta. Non potrà essere salvata da quel manipolo di medici che lavorano con competenza ed abnegazione e che non sono stati assunti e non sono diventati primari per chissà quali iniqui e segreti meccanismi. Non potrà essere salvata da quei pochi amministratori pubblici che cercano non solo di porre rimedio alla corruttela, alle inettitudini o, come nel caso del sindaco di Cosenza, ai dissesti finanziari prodotti dalle precedenti amministrazioni, ma provano pure a difendersi da coloro i quali vorrebbero sostituirli, subordinarli o costringerli al malaffare. Non potrà essere salvata da quei pochi centri del sapere come l’Università della Calabria che il Rettore, Gianni Latorre, è riuscito a portare nei primi dieci posti di tutte le classifiche, ministeriali e giornalistiche, nazionali. Uno straordinario risultato se si pensa che tutto ciò che è calabrese è agli ultimi posti in tutte le possibili classifiche europee (dell’Europa a 25). Non potrà essere salvata da quei pochi dirigenti e funzionari delle soprintendenze o degli altri enti pubblici che intendono il proprio lavoro come un sacrosanto, normale, servizio pubblico. Spetterebbe alla classe dirigente politica far uscire la Calabria da questa situazione disperata e disperante proponendo ed attuando un progetto complessivo di sviluppo economico, sociale e culturale. Questa classe dirigente di centrodestra e di centrosinistra, è evidente ormai a chiunque, non è capace di farlo e deve sapere, una volta per tutte, che è venuta meno al suo compito fondamentale e, quindi, deve farsi da parte. Bisogna, però, che i calabresi comprendano, anche, che la terribile responsabilità di far parte di una società profondamente malata non può essere solo della politica e della classe dirigente di questa regione, ma è di noi tutti, della cosiddetta “società civile” che nulla, o troppo poco, ha fatto per scrollarsi di dosso questo giogo. Abbiamo concorso tutti noi ad eleggere i rappresentanti calabresi nelle istituzioni e nessuno può dirsi incolpevole. La classe dirigente di questa terra – Comuni, Province e Regione – è questa ed ognuno di noi deve aver trovato un suo particolare tornaconto nel votare questo o quello. Abbiamo eletto un ceto dirigente che, negli ultimi decenni, è stato, prevalentemente, impegnato a creare alleanze trasversali (finalizzate al lucro?), un ceto che si è rivelato del tutto privo di pensieri forti, privo di un’idea di come possa essere il futuro di una regione. Privo di un’idea di Calabria. Si è condannata un’intera popolazione ad una condizione di rassegnazione e di avvilimento per decenni, per generazioni. Le lotte e le sofferenze dei nostri padri, dei nostri nonni, dei nostri bisnonni per il riscatto di questa terra non sono valse a nulla, sono state vanificate da discendenti inetti e corrotti. La fame, la povertà, le emigrazioni di massa dei nostri ascendenti si sono rivelati patimenti inutili a causa della vergognosa inanità ed incapacità dei loro miserevoli eredi. Il Presidente Napolitano ed il governo Berlusconi, la mia mano trema nello scriverlo, devono commissariare la Calabria, devono commissariare tutti gli enti pubblici calabresi per almeno una generazione. Devono insediare commissari e dirigenti valdostani, trentini o friulani per evitare che parentele, ricatti fisici ed emotivi, amicizie, minacce ’ndranghetiste e vischiosità sociali intralcino l’opera di rinascita degli Istituti. Devono avviare una radicale rifondazione di questa regione tagliando di netto la testa a quel mostro politico-burocratico-affaristico che si fonda sull’intreccio di secolari complicità familiari, sociali, politiche ed economiche. Solo così, forse, si potrà arginare l’altrimenti inarrestabile degrado morale, fisico e psicologico di questa terra e dei suoi abitanti.

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