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di FRANCO CRISPINI
Nessuno di quanti si appassionano e seguono con forte interesse quel che si scrive, da Galasso a Franco Cassano, sulle tante questioni che riguardano il Sud, le quali poi tutte vengono sussunte sotto l’unica voce di “questione meridionale”, si può lasciare sfuggire i modi di “lettura” che vengono praticati e le diverse risultanze, anche dal punto di vista politico, che ottengono.
Di queste modalità teoriche, che non sono moltissime, cui si affidano le analisi tendenti a mostrare le terapie necessarie per superare il “ritardo” meridionale, Franco Cassano il teorizzatore, come si ricorderà, di un “pensiero meridiano” che fornì nuove suggestioni ad un marxismo che si affacciava a guardare ad una “sponda mediterranea”, in un suo libro fresco di stampa, “Tre modi di vedere il Sud”( Il Mulino 2009) prende in considerazione tre prospettive, tre paradigmi che sono tra i più ricorrenti nelle riflessioni sul Mezzogiorno dal momento in cui prende l’avvio la “eclisse della questione meridionale”.
Il sociologo barese registra, innanzitutto, con una punta di amarezza, che il Sud non è stato all’altezza di quel “sogno” di un “Pensiero meridiano” che desse ai meridionali la forza e la capacità di pensarsi come soggetti. Il Sud affoga sempre più “in un mare dove la retorica sembra aver sostituito la politica” : tutti retoricamente ammettono la importanza del Mediterraneo e del Mezzogiorno, ma niente si è fatto in concreto (anche Galasso invoca una “ nuova stagione, nuovo concretismo” !); classe politica, imprenditori, società civile non hanno dato prove esaltanti. In questo altro contributo meridionalista, Cassano riconduce gli approcci teorici sul Mezzogiorno a questi specifici paradigmi d’insieme : quello della “dipendenza” e dello sfruttamento, quello della “modernizzazione” o del ritardo, quello della “ autonomia” del Sud come risorsa critica.
Secondo il primo, le aree sviluppate e quelle cosiddette “arretrate” sono “due facce di un medesimo meccanismo di dominio” per cui chi “sta prima e avanti, sta sopra”: inutile praticare una rincorsa ed una “pedagogia dello sviluppo” perchè quel che occorre è rovesciare il rapporto di subordinazione, rifiutare una “integrazione subalterna del Sud”. E perciò niente vie riformistiche poiché lo sviluppo è sempre “un gioco a somma zero”. Per il secondo paradigma il Sud è una area territoriale “in ritardo” dove permangono tratti sociali, economici e culturali che frenano la transizione alla modernità; due le vie per superare il “ritardo”, quella dell’“universalismo progressista” che punta su politiche di intervento straordinario da affidare alla autorità pubblica; l’altra via è quella “liberista” che vede con preoccupazione l’intervento dello Stato per cui occorre soltanto una strategia dura che spinga il Sud a contare sulle proprie forze tenendolo lontano da scorciatoie corruttrici.
Oltre che nella versione riformistica e quella liberista, il paradigma viene declinato in una forma “sociale” che assegna un ruolo cruciale alla “dimensione locale”: sollecitare le piccole realtà ed un “autogoverno municipale”.
Un Sud come “punto di vista critico” è quello che si ritrova nel terzo approccio della “autonomia” alla cui costruzione Cassano stesso ha dato un grande contributo dei cui assunti è ancora convinto: vale impegnarsi per un Sud diverso ma in una visione realistica (“credere ad un sogno, senza credere ai sogni”); finita l’epoca dell’intervento straordinario, anche il “localismo virtuoso” che puntava sulla autonoma capacità di farsi valere, si è rivelato non sufficiente perché un volontarismo individuale non basta di fronte alla enormità delle implicazioni della questione meridionale.
Cassano non ha difficoltà (come emerge da una intervista rilasciata al “Corriere del Mezzogiorno” del 15 Sett. 2009) ad ammettere che vi è discontinuità col suo “pensiero meridiano” basato sulla autonomia del Sud come soggetto: però le figure sociali concrete oggi sono frantumate, subalterne, in un clima di “regionalizzazione della ragione e di rivendicazionismi territoriali”, di un “esotismo mediterraneo che riduce gli aspetti migliori della vita meridionale a festa estiva”. Ma vi è anche chi legge il Sud non come degrado, sviluppo ritardato, ed abbandono ma alla luce di cosiddetti “indici immateriali” quali bellezza dei luoghi, tradizioni culturali ed altro, ritenendo, come i teorici della “decrescita” (Latouche, Sachs) che sviluppo economico non si identifica con benessere.
Il Sud, pur con le tante amministrazioni di sinistra che governano sebbene con scarsi risultati, viene tuttavia letto in modo assolutorio nell’illusione che possa essere valutabile non attraverso criteri economici (prodotto interno lordo ed altro) bensì secondo quegli indici più comprensivi e generosi. Intanto, abbiamo letto che in una classifica non secondo il Pil ma in base ad un indice di qualità dello sviluppo regionale (Quars) che tiene conto oltre che del reddito, di ambiente, diritti di cittadinanza, salute, istruzione, cultura, pari opportunità, partecipazione, due regioni meridionali, per due regioni quali la Campania e la Calabria, le cose non cambiano, esse sono moltissimo indietro. Nel Sud certo non mancano realtà “moderne” e di avanzato sviluppo come il petrolio in Basilicata, il porto di Gioia Tauro, ma c’è da chiedersi perché non sono fatte diventare fattori di trasformazione. Sarà perché c’è una classe politica che rimane sempre a bassi livelli? In ogni caso, privilegiare ed irrigidire una sola delle modalità teoriche di “vedere” il Sud, quelle di Cassano ed altre, può significare andare incontro ad una infruttuosa unilateralità, non giovando sicuramente a quelli tra i politici che non restano indifferenti alle idee che maturano per rimettere al centro la “questione meridionale”.

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