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Natuzza Evolo

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di IGNAZIO SCHINELLA

Il vissuto dei santi: tra krònos e kairòs, ovvero dalla cronaca alle intenzioni segrete Il vocabolario greco fa differenza tra krònos e kairòs, ovvero tra il fluire del tempo nell’accadere materiale e bruto dei fatti, e il kairòs, l’evento traduttore e abitatore di un senso, il tempo colmo di vita e di storia nel suo significato di iniziatore di una nuova versione delle cose e degli uomini.

Soprattutto nei momenti significativi delle diverse epoche, nei tornanti storici, il santo – come Natuzza – si propone come la novità dell’amore della croce e della tomba vuota di Cristo e della sua memoria nell’attualizzazione dell’oggi, capace di fecondare la vita degli uomini e la relazione tra i popoli.

Il kairòs è la crisi della storia, per questo ne è la misura, in quanto rifonda la vita quotidiana nella sua essenziale verità, mentre ne prospetta un avvenire diverso in continuità con l’evento originario, fondante l’esperienza della fede. In tal senso la storia di Natuzza e dei santi è come il memoriale liturgico, capace di rendere presente l’azione feconda del mistero di Cristo. La storia dei santi non consiste nell’assemblaggio degli episodi, non è un florilegio di aneddoti, ma nel significato di essi, il quale sprigiona nella storia e fa esplodere il sabato di Dio, ovvero l’evento di Cristo, da cui sempre bisogna ripartire.

E così la terra viene scossa da un fremito nuovo, poiché quando Dio manda il suo Spirito, tutto il volto della storia e della terra si rinnova. In tal senso, Natuzza, come ogni santo, esprime e realizza storicamente una delle strutture essenziali del cristianesimo: il cristianesimo chiama in causa il singolo individuo, ma facendolo esistere per il tutto e non solo per se stesso.

Poiché la salvezza deriva da un unico uomo vissuto e morto per gli altri, Cristo, così il santo, al seguito di Cristo, vince con la sua singolarità, partecipazione autentica alla vita di Cristo, la dittatura dell’anonimato e dell’ambiente, ponendosi come novità e rottura rispetto a quel “sì” impersonale in cui nasce e che vorrebbe ridurre la sua originalità immettendolo come parte di un ingranaggio. Il santo narra concretamente la possibilità per l’uomo, per ogni uomo, di non cedere al fascino fatalistico, che tutto è stato sempre così e niente di nuovo può accadere sotto il sole.

L’ambiente, ovvero la cultura, il “si è fatto sempre così”, possono crocifiggere il santo, perché attenta biblicamente parlando alla sicurezza degli uomini ed è uno schiaffo continuo all’ignavia degli uomini, ma egli viene associato a quel movimento di amore e di dono di Cristo, che chiama il santo a seguirlo, ovvero a portare la discontinuità nella storia, cooperando a spezzare quella potenza impersonale dell’anonimità, riaffermandosi come persona, ovvero come unicità originaria e solitudine comunionale.

La solitudine è un carattere metafisico dell’essere personale, in quanto esprime lo statuto della persona di non poter essere ridotta alle cose e agli oggetti, in quanto è in sé e per sé. La comunionalità richiama quella relazionalità sia verticale che orizzontale fondamentale in cui si dà la persona, senza peraltro consumarsi in essa. Così si va al di là della semplice registrazione degli avvenimenti per carpire il cuore e le direzioni segrete del cammino del reale, che non deve essere determinato solo nella sua oggettività, ma anche a partire “dal segreto”, che spezza la continuità del tempo e ne coglie le intenzioni segrete, quelle vere, che il santo condivide con Dio nel santuario della sua coscienza e permette alla storia, al mondo e al cammino degli uomini di progredire verso il porto dell’eterno, sapendolo anticipare nell’oggi dato da Dio.

Così riafferma lo spessore personale del peccato – rimane quale piaga indelebile il suo grido: su na pova apeccatura (sono una povera peccatrice) -, peccato che non può primariamente ascriversi a strutture impersonali o a quell’andazzo del tempo che fa dell’uomo una parte del pecorismo storico-sociale. Il santo è libero, perché si avverte peccatore, ovvero in grado di assumersi le responsabilità sue e quelle degli altri – inserito come è nella comunione dell’amore dei peccatori e dei santi insieme -, leggendo la vita e le relazioni con categorie non solo psicologiche e sociologiche, ma anche teologiche.

Non sta forse qui uno dei segreti più profondi delle sue quaresime e cicli pasquali di intima comunione con il Signore diventato peccato per noi? O il suo richiamo continuo alla penitenza o conversione, ovvero alla responsabilità della vita? Mamma Natuzza, come ogni santo, è la “stravaganza” dell’amore, espressione di quella sovrabbondanza di giustizia che è l’altra struttura portante del cristianesimo. Natuzza è l’iperbole del Vangelo, la logica della stravaganza e della sovrabbondanza che si è riversata dentro di lei dall’esperienza del perdono di Cristo che la spinge a perdonare alla stessa maniera sovvertendo la storia e le relazioni tra gli uomini, o dalla retorica dell’eccesso propria del discorso della montagna, che apre la giustizia umana a quella del Vangelo, sovvertitore della vita, che viene dischiusa verso un cammino dalla reciprocità ed equivalenza alla gratuità, liberandola dall’utilitarismo e dall’interesse verso il suo pieno significato di generosità e di redenzione del dono. Sta qui il potere sovversivo di Natuzza e di ogni santo, perché visita il regno della giustizia, rompendo le frontiere provvisorie in cui si organizza storicamente, i suoi limiti culturali inevitabili, le figure storiche necessariamente limitate.

Perciò lei è e rimane una sorella universale. Al seguito di lei, che storicizza la vicenda di Cristo, la categoria culturale politica amico/nemico, di cui alcuni politologi fanno una struttura politica fondamentale e insuperabile, viene trascesa per dare alla giustizia la cerchia illimitata dell’umanità, senza darsi soltanto in cerchie ristrette. La realizzazione della giustizia nella storia non si dà mai nella sua pienezza, per questo ha bisogno di singolarità, qual è il santo, per spostare, sia pure di poco, le barriere anguste della giustizia e dilatarle verso la pienezza dell’amore attraverso il suo comportamento intempestivo ed estemporaneo. Non si tratta solo di eventi simbolici, ma realmente efficaci, capaci di contestare un ordine ritenuto fino allora giusto o nella traiettoria della verità della tradizione.

Se il paradosso cristiano si dà nell’incarnazione (la presenza) e nel mistero pasquale di morte/risurrezione (la rottura), le azioni del santo costituiscono una rottura non solo pratica, ma linguistica e teoretica in grado di elaborare un nuovo linguaggio o di narrare l’evento fondatore con parole nuove alla vita. Quello che il santo sovverte con le sue azioni di rottura a un clima e a un ambiente ben codificato non è l’ordine e l’armonia, ma i limiti storici, le restrizioni mentali e culturali, i pregiudizi di classe, in cui l’ordine si esprime storicamente. Il santo imprime così alla storia e alla vita il programma proprio della santità e dell’amore: l’abbraccio universale dei diritti, che biblicamente parlando sono sempre i diritti degli altri, soprattutto dei più deboli, che vengono anteposti ai propri, messi a servizio della promozione di ogni uomo e di tutti gli uomini, in una rottura con quella cultura dell’autorefenzialità che insidia ogni epoca storica, rendendola moderna ovvero pagana.

Si afferma così quell’economia del dono o quell’etica del dono, la cui poesia supera sempre la prosa della legge. Natuzza è la poesia dell’amore, la sua liricità che anticipa l’eschaton, riavvicinando il tempo all’eternità. Egli è capace di rompere con la quotidianità e il presente, conferendo alla speranza lo statuto dell’utopia, preoccupata più di quello che troverà piuttosto che di quello che lascia.

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