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di ENNIO STAMILE*
Da diversi giorni mi vado interrogando se bastano veramente due parole per mettere a tacere quella voglia di riscatto e di speranza che da circa due mesi alberga nei cuori e nelle menti della maggior parte dei calabresi. Dopo aver ascoltato tanta gente comune, quella che lavora, che dedica il tempo libero al servizio della comunità civile nel vasto e variegato mondo del volontariato, nei partiti politici, nelle comunità parrocchiali. Dopo aver letto molti articoli che riguardano la cosiddetta “nave dei veleni”, e più in generale dell’inquinamento in Calabria, francamente credo proprio di no! Anzi, mi viene subito da dire che il cosiddetto “caso” è e rimarrà aperto, fino a quando ogni dubbio non verrà fugato. A essere sincero, le domande che in questi giorni hanno affollato la mia mente sono state diverse. Voglio manifestarne qualcuna a chi ha la pazienza di leggere. Mi sono chiesto: ma che fine ha fatto il cosiddetto bene comune, principale stimolo dell’azione politica che, pur nella diversità dei partiti – oggi dovremmo forse più correttamente dire delle appartenenze – dovrebbe orientare tutte quelle scelte e quelle azioni necessarie per il suo effettivo conseguimento? Il “caso” della nave dei veleni e il comportamento delle diverse “appartenenze” mi ha confermato nella convinzione che il bene comune è lungi dall’essere considerato come uno dei primari obiettivi di chi, a vario titolo, si impegna nel sociale e nel politico. Ebbene richiamare quanto a tal proposito ci ricorda il Santo Padre Benedetto XVI nell’ultima sua enciclica Caritas in Veritate al n° 7: «Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni». Mi è sembrato che detto “caso” – forse proprio a causa della diversità politica di chi ci governa a livello centrale da chi, invece, lo fa a livello regionale, o magari più semplicemente perché la Calabria non si trova nel Nord ma nel Sud dell’Italia – non è stato considerato come doveva. Infatti, la drammatica intempestività manifestata dal ministero dell’Ambiente nel mandare la Nave Oceano per le opportune verifiche, e la celerità con la quale il caso è stato liquidato con le relative dichiarazioni di esponenti istituzionali, di alcuni parlamentari e anche, purtroppo, di qualche quotidiano cattolico, hanno lasciato a molti l’amaro in bocca. Dopo il danno, la beffa. La colpa, è stato detto e ribadito, è di chi si è allarmato e ha creato un danno alla già precaria economia regionale, in particolare al mercato ittico e alla catena di ristorazione. Insomma, non era proprio il caso di allarmarsi. Sia ben chiaro, chi scrive è il primo a essere contento – una volta che le indagini fatte a livello regionale e centrale siano state paragonate – che la nave non è quella che si sospettava. E’ stato detto, però, che bisognava essere prudenti, valutare con attenzione le dichiarazioni di una pentito solo riscontrando i fatti. Ma quali? Quelli che molti conoscono da anni? Un fatto, ad esempio – è stato ricordato con molta franchezza da monsignor Cortese, vescovo incaricato per la Caritas regionale – è che “in Calabria il primo latitante” è, e forse continua a essere, lo Stato. Per anni abbiamo assistito quasi inermi all’allargarsi dello strapotere mafioso su quasi tutto il territorio calabrese, favorito da quella lentezza istituzionale, di cui abbiamo detto in altre occasioni. Scarsità di uomini e di mezzi alle forze dell’ordine, isolamento di alcuni magistrati maggiormente esposti in alcune delicate indagini, oltre che a quel muro di omertà spesso difficile da abbattere, hanno favorito le varie ‘ndrine alla completa gestione del territorio. Ecco perché la ‘ndrangheta – e insieme a essa tutte le altre mafie – è un antistato, se è vero come è vero che lo Stato, appunto, estende il suo triplice potere legislativo, esecutivo e giudiziario in un determinato territorio. In quasi tutto il territorio calabrese si è progressivamente assistito al completo controllo del territorio dove quella determinata ‘ndrina ha operato. Questo è un fatto incontrovertibile. Per la Calabria questo “fatto” ha significato: smaltimento incontrollato di scorie di vario genere – che ho definito senza mezze misure crimine contro l’umanità – traffico di sostanze stupefacenti addirittura a livello mondiale, traffico di armi, usura, riciclaggio, minacce a onesti imprenditori, tratta, sfruttamento degli immigrati, eccetera. L’elenco, purtroppo, sarebbe ancora lungo. Tutto questo ha consentito alla ‘ndrangheta di diventare “l’organizzazione criminale più potente al mondo”. Alla luce di questa constatazione, i calabresi, la stragrande maggioranza di questo popolo laborioso e generoso, ancora oggi costretto per motivi di lavoro a lasciare questa terra che ama, ha diritto a vedersi restituita la Calabria, martoriata e ferita, certo, ma ancora bella anche perché “è cosa nostra”. Richiamando, infine, ancora l’enciclica Caritas in Veritate ricordata sopra, considerato che ci stiamo avvicinando alle elezioni amministrative e regionali, desidero lanciare un appello innanzitutto a tutti politici: è ora di superare la ricerca di interessi di parte, “volere il bene comune è esigenza di giustizia e di carità”, come ci ha ricordato Benedetto XVI. La giustizia, come aveva già insegnato Paolo VI, “è la prima via della carità”. I calabresi non hanno bisogno, dunque, dell’elemosina di una politica che prima di tutto cerca gli interessi di parte. Bensì di politici che, con quelle qualità già ricordate da Max Weber, cioè “passione, senso di responsabilità e lungimiranza”, si impegnino con coraggio alla ricerca del bene comune senza subdole collusioni che li spinge alla ricerca di voti per l’atavica paura di non essere eletti. Capaci di scelte programmatiche – visto che quelle ideologiche, purtroppo, ormai non esistono più – e fedeli a esse, non pronti a passare all’altro schieramento che riesce a garantire in quel momento elezione certa. Paradossalmente, il caso della nave dei veleni, e di tutti gli altri siti sparsi in diverse parti del territorio calabrese, ci ha fatto conoscere una Calabria diversa capace, attraverso la maggior parte dei suoi cittadini, al di là delle diverse appartenenze, di fare fronte comune rispetto al tema dell’ambiente che contiene tutti gli altri. Se è vero che “il futuro appartiene a chi riesce a trasmettere alle prossime generazioni motivi per cui sperare”, come insegnava Pierre Teilhard de Chardin, francamente questo mi sembra un motivo per cui continuare a sperare.

*delegato regionale Caritas Calabria e parroco in Cetraro

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