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di NICOLA D’AGOSTINO*
Ho, come difensore, recentemente citato in giudizio il ministero della Giustizia al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti dai prossimi congiunti in conseguenza di due diversi suicidi verificatisi nel carcere di Vibo Valentia. I recenti suicidi, ed in particolare, sia quello di un tunisino nel carcere di Pavia, che quello dell’ex Br Blefari Melazzi nel carcere di Rebibbia, mi inducono ad esprimere alcune riflessioni, in ordine alla possibilità di individuare delle responsabilità, quantomeno di natura civilistica, per dette morti annunciate. Le particolari modalità di detti suicidi sembrano far emergere un evidente collegamento causale con le funzioni pubbliche attribuite a soggetti che avevano l’obbligo giuridico di impedire qualsiasi atto autolesionistico. In sostanza, non può certo escludersi qualsiasi forma di responsabilità per il solo fatto che la morte è stata conseguenza di un suicidio, in quanto l’ordinamento giuridico individua delle posizioni di garanzia (come ad esempio quelle dell’amministratore di condominio, del maestro di sci, del medico, eccetera) che impongono determinati comportamenti proprio al fine di evitare che eventuali omissioni possano provocare tragici eventi. E che il suicidio, di per sé non sia idoneo ad escludere qualsiasi ipotesi di responsabilità della Pubblica amministrazione, è un fatto assolutamente certo, tant’è che, anche di recente, il Tribunale di Catanzaro ha condannato il ministero della Pubblica istruzione al risarcimento dei danni subiti dai familiari di una ragazza suicidatasi a scuola. Nell’ambito del sistema penitenziario il suddetto principio della responsabilità conseguente ad una condotta omissiva è ancor più evidente in considerazione della frequenza dei suicidi che ha indotto il ministero della Giustizia ad emanare, sin dal 02.05.2000, una circolare contenente una dettagliata serie di disposizioni, non sempre rispettate (in alcuni casi per le croniche carenze strutturali e di personale), “ai fini di una riduzione dei suicidi nelle carceri”. Ritengo, pertanto, giusto ed opportuno che, di fronte a delle morti “preannunciate”, debba essere individuata ed accertata qualsiasi tipo di responsabilità (penale, civile e disciplinare), non essendo assolutamente immaginabile che lo Stato di diritto possa consentire ad alcuno la violazione di norme poste a tutela di diritti fondamentali, come appunto quello alla vita, che il nostro ordinamento, fortunatamente, riconosce a tutta la popolazione, senza eccezione alcuna, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla pericolosità sociale del condannato. Poco importa se qualcuno, di fronte alla morte della Blefari, ha ritenuto di dover pubblicamente esprimere la propria mancanza di compassione (v. Giuseppe Cruciani su “Panorama” del 12.11.2009) e ciò in considerazione di alcune frasi agghiaccianti (“fosse stato per me Biagi lo avrei torturato prima di giustiziarlo..”) pronunciate dalla stessa Blefari; certamente più importante è che lo Stato accerti se vi siano responsabilità della Pubblica amministrazione in un suicidio che probabilmente avrebbe potuto essere evitato da un’azione doverosa ed omessa (come ad esempio un controllo a vista, il ricovero presso una struttura specialistica, eccetera). A tal ultimo proposito non emergerebbe, sia pur soltanto dai resoconti giornalistici, una stretta collaborazione tra i Pubblici ministeri, titolari di attuali inchieste giudiziarie che avrebbero potuto avere un ulteriore impulso dalla eventuale collaborazione della Blefari, e l’amministrazione Penitenziaria, verosimilmente già a conoscenza della particolare condizione di fragilità psicologica della detenuta, condizione ovviamente aggravata sia dal possibile recente coinvolgimento del proprio compagno in detta inchiesta e sia dalla conferma definitiva dell’ergastolo irrogato nei suoi confronti. Per quanto riguarda il suicidio del tunisino nel carcere di Pavia la situazione è ancora più paradossale, tant’è che è stato avviato anche un procedimento penale per omicidio colposo, in quanto non si è efficacemente intervenuti nonostante un mese di sciopero della fame. Nel caso dei suicidi della Blefari e del tunisino Sami Mbarka sembrerebbe quindi ipotizzabile la responsabilità civile dell’amministrazione penitenziaria con il conseguente obbligo per il ministero della Giustizia di risarcire il danno, fermo restando che, ovviamente, soltanto l’Autorità giudiziaria potrà, in concreto, accettarne la sussistenza. E’ bene quindi che dei suicidi in carcere se ne parli, in quanto, a differenza di quanto recentemente sostenuto da Adriano Sofri, non è argomento di interesse esclusivo dei familiari e degli specialisti, poiché il grado di civiltà di un popolo si misura anche dal tipo di sistema carcerario. In tutto ciò l’avvocato (insopprimibile figura costituzionale di difensore dei diritti), troppo spesso e troppo superficialmente, ritenuto come un “faccendiere”, oppure come un “vampiro assetato del proprio cliente”, svolge un ruolo di primaria importanza non indietreggiando di fronte alla prospettiva di chiamare in causa “pezzi pregiati” della Pubblica amministrazione, con la convinzione di ottenere concreti risultati che, pur non restituendo ai familiari l’insostituibile presenza del proprio congiunto, possano consentire, soprattutto per i figli ancora in tenerissima età, un minimo di aiuto per affrontare le innumerevoli difficoltà della vita quotidiana, e ciò al di là del pur importante contributo fornito dalle autorità preposte per la tutela delle persone private della libertà personale (come ad esempio i vari garanti, regionali, provinciali e comunali, recentemente istituiti nel nostro ordinamento).

* avvocato Vibo Valentia

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