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di LEO AMATO «Fortuna». Come se il punto dell’accusa fosse in fondo una questione di fede, o superstizione: chi ci crede, e chi non ci crede; da una parte gli indagati, e dall’altra i militari dell’Arma. L’ironia è dei vertici dei carabinieri, e non sarebbe del tutto ingiustificata. In tre anni o poco meno, quanto è durata l’indagine sul Potenza calcio, se ne sono viste di tutti i tipi. Se si sia trattato di veri e propri tentativi di “depistaggio” lo decideranno i giudici dopo un regolare processo, ma le grida al complotto sono arrivate lontano, e alla fine anche in uniforme può venir voglia di levarsi qualche sassolino dalla scarpa, ed è così che è andata.
Ieri mattina il colonnello Domenico Pagano ha illustrato i risultati dell’operazione “Ultimate” in un’affollata conferenza stampa che si è svolta nei locali del Comando provinciale di via Pretoria, a due passi dal duomo di Potenza. Al suo fianco era presente il comandante del nucleo investigativo, il capitano Antonio Milone. Entrambi hanno risposto alle domande dei giornalisti, e non si sono sottratti alle telecamere dei principali network nazionali. Un siparietto inedito ha introdotto la discussione, quando i militari hanno allontanato due avvocati confusi in mezzo ai giornalisti. Si erano qualificati «liberi cittadini», poi «tifosi» spinti dalla fede, e dall’orgoglio rossoblu.

Arma letale
Il comandante provinciale ha riassunto in breve il lavoro svolto e le tappe dell’inchiesta nata ai primi del 2007 da una grossa operazione antidroga nel capoluogo di Regione. Venne chiamata “Arma letale”, nel nome di una ragazza morta di overdose proprio nel corso dell’indagine. In 26 vennero arrestati, e nel febbraio scorso il gup Giuseppe Losardo ha condannato in totale a 78 anni di reclusione nove dei venti rinviati a giudizio, quelli che hanno scelto il rito abbreviato. Per gli altri undici pende una richiesta complessiva di 130 anni di carcere, e la sentenza è attesa per la metà di dicembre. Il vuoto nella catena di distribuzione del mercato della coca nella “Potenza bene” sarebbe stato riempito da alcuni soggetti, tra i quali personaggi legati al clan dei basilischi, e in particolare Antonio Cossidente, potentino di 44 anni con precedenti specifici.

Le Soffiate
Nell’ottobre del 2007 Gino Cosentino si è “menato” pentito, il capo storico dei basilischi dopo aver ceduto il “bastone” al suo sodale Cossidente, ha iniziato a collaborare con la giustizia svelando nomi e affari delle nuove gerarchie della mala. Oltre ai giri di droga, “Faccia d’angelo” avrebbe dato impulso alle indagini grazie ai riscontri offerti sugli interessi di Cossidente verso alcuni locali, e i servizi di sicurezza allo stadio Viviani, ma la dritta migliore sarebbe stata quella sulle scommesse. Cosentino, in due parole, avrebbe smascherato il prestanome del boss, che aveva appena aperto una sala per le scommesse sportive. L’attività venne subito chiusa, ma da quel punto in poi l’inchiesta dei carabinieri avrebbe preso tutt’altra strada. A novembre trapelarono le prime voci e alcuni testimoni vennero chiamati in procura come persone informate sui fatti, ma la cosa non venne presa sul serio, e ad aprile del 2008, quando il caso è deflagrato in occasione del match contro la compagine salernitana, il sistema di osservazione dell’Arma si era già messo in moto.

Le iscrizioni
A proposito della partita con la Salernitana Postiglione in conferenza stampa aveva detto di una «combine» ai suoi danni. Prima del fischio dell’arbitro sarebbe entrato nelle stanze dei calciatori dicendo di dubitare del loro impegno sui 90 minuti, e avrebbe messo fuori rosa tre giocatori. Alla fine della partita Pasquale Arleo si era dimesso da allenatore della squadra, e si era aggiunto agli altri già sfilati davanti ai magistrati dell’Antimafia. Prima di lui sarebbe stata la volta di giocatori e dirigenti. La notizia dell’indagine divenne pubblica a maggio nonostante le smentite dei diretti interessati, con Postiglione in testa a rovesciare le accuse. Si cominciò a parlare di un pregiudicato coinvolto. Già qualche anno prima, quando la proprietà del Potenza era in mano ad altri imprenditori del capoluogo, gli investigatori si erano chiesti come mai il servizio d’ordine nello stadio fosse affidato a persone date per vicine agli ambienti della mala, e ad agosto furono arrestati in cinque tutti vicini al Potenza Fc, con le accuse di estorsione, rapina, danneggiamenti e lesioni aggravate dall’aver agito con metodo mafioso, nell’operazione dei carabinieri denominata “Hooligans”, che era nata da uno stralcio urgente del filone principale. Solo una settimana dopo in una busta di plastica sotto casa di Postiglione venne trovata una testa di maiale ancora zuppa di sangue e si pensò a un messaggio in puro stampo mafioso contro di lui. Il quadro si sarebbe chiarito ai primi di Settembre. «Antonio Cossidente gestiva un centro scommesse». Scrissero i giornali. «Incontrava pregiudicati, ma anche i dirigenti del Potenza Sport club». E ai suoi gregari avrebbe dato disposizioni come quella di «intimidire» i tifosi che contestavano il presidente Giuseppe Postiglione. «Minacce», per la procura, «aggravate dal metodo mafioso». Il patron del Potenza, secondo altre indiscrezioni, teneva strani rapporti con un certo «capa di bomba», così venne chiamato dai testimoni il personaggio che i militari riusciranno a identificare in Luca Evangelisti.

I dichiaranti
Sempre ai primi di settembre, quando si precipitarono in procura il dirigente del settore giovanile del Potenza Sport club, Antonio Lopiano, e l’addetto alla pubblicità della squadra, Antonio De Angelis, gli investigatori ricevettero copia delle ricevute delle scommesse giocate. I due, dopo gli scontri della partita con il Gallipoli, erano stati colpiti dal “Daspo”, il decreto che vieta alla persona ritenuta pericolosa di poter accedere ai luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive, e i rapporti con il presidente del Potenza si erano incrinati per una questione di pochi euro.
Venne alla luce il progetto di una società sportiva tutta nuova, più grande e più forte, che doveva nascere con il placet di Antonio Cossidente. I carabinieri scrivono di un’incontro nello studio di un rispettato commercialista che sarebbe avvenuto nel periodo caldo della campagna elettorale con un politico regionale, Gigi Scaglione, che in un interrogatorio avrebbe dato la sua versione sui fatti sostenendo di aver agito come un qualsiasi politico. Ma Lopiano e De Angelis parlano anche sui media: «Eravamo molto vicini – raccontarono al Quotidiano – al presidente Giuseppe Postiglione, per via del rapporto che aveva instaurato con noi. Per lui abbiamo svolto compiti che andavano al di là del nostro ruolo… Siamo stati trattati come suoi burattini. Eravamo sempre al suo fianco… nella partita del 6 aprile, quella tra Potenza e Gallipoli, ci sono state delle “intemperanze” all’interno del rettangolo di gioco e noi abbiamo preso un Daspo di tre anni. Per tre anni non potremo andare allo stadio. Abbiamo pagato solo noi. In silenzio. Anche se tutto quello che avvenne quella domenica era stato pensato e pianificato prima. Anche i nostri comportamenti».

Il complotto
Davanti alle accuse che gli muovevano gli «indagati-dichiaranti», come li definisce la procura, Postiglione si dimise, annunciò il disimpegno economico, ma cambiò subito idea. Disse che avrebbe fatto i nomi di chi aveva «macchinato», chiese di essere sentito, e proclamò di essere pronto a fare il nome di quel politico di cui i giornali non conoscevano ancora il nome. Parlò di «un sistema artatamente messo in piedi contro il sottoscritto». Rispetto ai suoi vecchi collaboratori, prese il dato del loro avvocato, il consigliere regionale Sergio Lapenna, e lo usò per lanciare il tema di un complotto politico ai suoi danni. Lapenna dal conto suo sporse querela e parlò di «minacce con metodo mafioso». Sulle dimissioni il presidente cercò di spiegare che era un gesto per far comprendere la situazione nella quale si trovava, ma anche per verificare se davvero c’era interesse per il Potenza. Il pm Francesco Basentini non avrebbe mai acconsentito ad ascoltare la sua versione di fatti.

La lettera del boss
Quasi in contemporanea alla redazione del Quotidiano arrivò una lettera di Antonio Cossidente. Il boss si diceva «sconcertato nel leggere l’accanimento e le aggressioni» nei suoi confronti. «Solo bugie e ipocrisie». Le sue sarebbero «semplici amicizie in un paesone in cui tutti si conoscono… Ho le mie conoscenze a Potenza, – dice così – perché sono potentino ma questo non autorizza gli investigatori a rovinare l’immagine e l’onestà delle persone a me vicine. Non posso frequentare pregiudicati perché la legge non lo permette, non posso frequentare persone di rilievo perché le accusano di accordi illeciti, non posso frequentare persone oneste perché le indagano… In questa società di clientelismo quale padre non si rivolge a un politico o a un imprenditore per cercare di inserire il proprio figlio? Basta. Ma basta davvero. Non facciamo più girare tutto intorno al nome di Antonio Cossidente. Tutti abbiamo gli scheletri nell’armadio e Potenza è piccola… c’è bisogno di un capro espiatorio, e si associa il mio trasferimento con la fine del campionato del Potenza, per indagare su un giovane imprenditore che ha creduto nel mondo del calcio e ha peccato nel donarmi la sua amicizia».

Scontri con il Gallipoli
Tre mesi dopo si capì che l’interesse dei magistrati si era allargato anche alla partita con il Gallipoli, e agli scontri con i giocatori. Ma sull’inchiesta calò il silenzio. L’informativa conclusiva dei carabinieri è datata gennaio 2009, ma a distanza di dieci mesi la giostra si rimise in moto dopo il ko con il Marcianise. Anche il nuovo allenatore, Eziolino Capuano, venne chiamato in procura, come Pasquale Arleo prima di lui, subito dopo il suo esonero, e a pochi giorni dalla data della chiusura delle indagini. Il presidente si dimise per la seconda volta e mise in vendita la società. Il resto è cronaca di queste ore. I carabinieri parlano di una “holding calcistico-criminale”. Fanno riferimento a un sistema superiore che avrebbe controllato tante partite dei campionati di Lega pro e categorie superiori.
«Una regia occulta», l’ha chiamata il capitano Milone. E l’indagine sarebbe ancora in corso.

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