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di GIUSEPPE ROMEO
Tra le tante cose che segnano il percorso e la maturità di una comunità vi è il senso della propria storia, il peso attribuito a chi la storia l’ha fatta realmente, magari pagando con la propria vita. In novembre abbiamo ricordato molte cose. Religiosamente la festa di Ognissanti, commemorato i defunti e il 4 novembre il giorno della “vittoria”, la fine di un conflitto mondiale, il primo, che ha chiuso, in un sacello di corpi, un’epoca risorgimentale che doveva consegnarci un’Italia definita e definitiva. Ma novembre ci ha riportato anche a sei anni fa, al ricordo della strage di Nassiryia accomunando e sommando quei morti a quelli più vicini, in Afghanistan. Oggi c’è chi, per debito politico piuttosto che per altro, vorrebbe istituire una festa per i caduti nelle missioni di pace. Una festa per mettere a posto una coscienza e che, invece, non dovrebbe distinguersi dalla nostra storia fatta di tanti caduti che dovremmo ricordare sempre e non solo per opportunità politica. In un mondo sempre più virtuale, i nostri militari, le forze di polizia come i magistrati che servono questo Paese e che hanno aggiunto sangue su altro sangue, rappresentano l’espressione più immediata di un senso di patria e di nazione che tenta di resistere al relativismo politico del nostro tempo. Essi difendono una verità che non è e non può essere in discussione. È la verità del fare per gli altri. Ordine, sicurezza pubblica, difesa, giustizia sono verità perché si misurano nei fatti. Di fronte a questi fatti, di fronte a una politica troppo occupata a gestire escort, viados e altre trovate – che sottendono una realtà di basso profilo espressione di un quotidiano gioco a chi infanga di più non degna dei figli migliori d’Italia morti per essa – dovremmo chiederci quale sia il significato da attribuire al sacrificio di un nostro soldato, di un nostro carabiniere o poliziotto di ieri e di oggi, consumatosi all’ombra del nostro tricolore. Una bandiera, spesso ridotta a semplice simulacro, che sembra esistere solo allorquando necessaria per coprire un caduto. Così, ad esempio, se dovessimo celebrare veramente e degnamente i nostri caduti nelle guerre come in pace, a Nassiryia come in Afghanistan, dovremmo riflettere innanzitutto sul fatto che un’operazione militare, come un’operazione di polizia, costa e, per questo, andrebbero dichiarati apertamente gli scopi reali di un impiego delle forze che è anche impiego delle vite dei nostri uomini. Nella condotta di un’operazione militare, come di polizia, il rischio di subire delle perdite si trasforma in un costo/fattore che non si può esorcizzare perché considerato politicamente non corretto o non conveniente. In questo c’è un senso di verità. In questo c’è soprattutto, restando nel mondo militare, un modo di considerare l’impiego delle Forze armate non come una semplice proiezione di una politica presenzialistica, ma quale strumento di una politica che sa cosa vuole. Ciò che si doveva chiedere in questo novembre che si appresta ad archiviarsi non è solo la celebrazione, facile per chi vive, dei caduti. Era ed è di dare alla verità quel valore e quel significato fondamentale che regola i rapporti tra chi decide e chi opera. Si trattava e si tratta di identificare nell’esempio di chi decide il nostro essere per attribuire a ogni azione posta in essere da chi rappresenta quotidianamente questo stanco Paese quella credibilità necessaria sulla quale si costruisce la forza morale ed etica di una nazione matura. Perché verità e credibilità vanno di pari passo e significano, entrambe, condividere un sentimento di impegno civile per gli altri che si risolve nell’amore per un’idea di nazione. L’Italia è anche, e forse soprattutto, il prodotto di questi uomini e donne in uniforme, delle forze di polizia come della migliore magistratura che esprime una civiltà del diritto calpestata da neofiti giuristi del momento autotitolatisi come tali solo perché prescelti quali parlamentari, poco importa se senza mandato popolare. L’Italia è il risultato ottenuto da una storia fatta di uomini, del Nord e del Sud, che l’hanno costruita e difesa, anche in anni difficili, con la loro vita per dare al cittadino quella libertà di cui oggi beneficia. I nostri carabinieri, come i nostri soldati, poliziotti magistrati di ogni ordine, servono questo Paese convinti che vi sia una verità che è quella di essere immagine di una nazione che non rinnega se stessa. Una nazione che non rinnega i suoi figli morti nelle nebbie padane di un risorgimento consunto o nelle dimenticate rigidità del Carso, o sulle strade delle nostre città o per mano di criminali spesso con buone prossimità a coloro che decidono altrove i loro, e i nostri, destini. Una nazione che non dovrebbe ricordarsi di essere tale solo se posta di fronte all’immobilità di un tricolore adagiato su di una vita spezzata. Churchill disse «che mentre le bugie hanno già fatto il giro del mondo la verità deve ancora indossare gli stivali». Ebbene i nostri uomini, i nostri soldati ad esempio, gli stivali li hanno indossati e li indossano ogni giorno, ogni giorno della storia d’Italia, in patria come nei campi di battaglia o nei teatri operativi. E sono stivali lucidi. Sono stivali che, seppur infangati da una terra ingenerosa, sono lucidi dentro perché difendono dallo sporco l’animo nobile di chi li indossa più di quanto non lo faccia oggi chi li rappresenta, coloro che del fango ne hanno fatto un motivo d’orgoglio o di attacco secondo le circostanze. Credo che molti italiani oggi, in questo novembre di crisi di una Repubblica sempre meno parlamentare, vorrebbero sperare, ricordando i nostri caduti – soldati, carabinieri, forze di polizia, magistrati e tanti altri di una società civile che è tale perché non coincide con la società politica di oggi – in una verità che è il “Paese”. Vorrebbero credere in un senso di legalità che accomuna sicurezza, difesa e giustizia. Sicurezza, difesa, giustizia che sono a un tempo valori e verità che contribuiscono, nelle rispettive dimensioni, a affermare il rispetto dell’altro e una pacifica, giusta, ordinata convivenza. Che contribuiscono a tutelare un sistema civile di democrazia compiuta che si costruisce, anzitutto, con un diffuso senso e rispetto di una lex valida per tutti senza aree alcune di impunità. Un senso di legalità che nessuno di noi vorrebbe si annullasse in un’altra verità che potrebbe svuotare di significato ogni sacrificio, per quanto supremo esso sia stato. E, cioè, per parafrasare Corrado Alvaro che «la disperazione di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».

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