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di VINCENZO SALVATI
La deposizione di Gaspare Spatuzza – il 4 dicembre scorso a Torino nel corso del processo d’appello a carico del senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa – ha attirato l’attenzione dei media di mezzo mondo sugli intrecci mafia-politica in Italia. Le dichiarazioni del pentito di mafia, che andranno verificate con accuratezza, ma anche altri numerosi elementi emersi nel corso di questi anni, certo lanciano delle gravissime ombre sulla limpidezza di chi attualmente ci governa. Ma non è di questo che intendo ora parlare. Lasciando ai giudici il compito di fare piena chiarezza su queste vicende, vorrei qui soffermarmi su alcuni aspetti emersi in questi giorni riguardo alle convinzioni religiose del pentito di mafia che ha parlato espressamente di una sua “conversione religiosa”. Come si sa, Gaspare Spatuzza è stato condannato a vari ergastoli per numerose stragi e omicidi e sta scontando in carcere la pena che merita. Tra gli omicidi commessi da Spatuzza vi è anche quello del parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, don Pino Puglisi, assassinato il 15 settembre 1993. «Quel prete rompeva le scatole!» Così rispose Spatuzza ai giudici che lo interrogavano sulle motivazioni che avevano portato le cosche palermitane alla decisione di eliminare quel parroco. Come sottolineavo qualche anno fa nel mio libro “Il Signore Dio e gli altri signori” (La Meridiana, Molfetta 1994), Pino Puglisi non era un prete che faceva rumore, non lo si poteva definire un prete dell’“antimafia”. Don Pino aveva capito, però, una cosa molto importante: la sua azione pastorale e l’azione della sua comunità poteva essere incisiva, poteva scardinare il sistema mafioso e togliere i bambini dalla strada e quindi dall’influenza delle cosche. In questi contesti, è il contatto quotidiano con persone ed esperienze positive che scava lentamente in profondità nelle coscienze, creando rapporti di reciproca fiducia e offrendo ai ragazzi e ai giovani alternative di vita credibili e praticabili. È precisamente questo che dava e dà fastidio alle mafie e a tutti i sistemi di potere. Ma torniamo alla conversione di Spatuzza e alle questioni che secondo me essa pone. Sul “Corriere della sera” del 29 novembre, Giovanni Bianconi riporta alcuni brani di una lettera al direttore del carcere dell’Aquila, in cui il pentito scriveva che la sua è “una scelta maturata sul profilo religioso”, che lo ha portato alle confessioni davanti ai magistrati e all’indicazione di altre sue responsabilità nei più gravi fatti di mafia del 1992 e ’93, le stragi e il contesto nel quale furono decise. «Solo attraverso il professionale e rassicurante rapporto avuto con i vari organi dello Stato – concludeva Spatuzza nella lettera – ho potuto compiere il passo della collaborazione. Ma tutto questo è legato sempre a quell’essere cristiano in cui mi riconosco oggi. Così desidero anche rappacificarmi con la mia Chiesa». Per questo motivo, Spatuzza ha scritto anche un’altra lettera al vescovo dell’Aquila e, tramite lui, “alla Santa Chiesa di Dio, Cristiana e Cattolica”. A questo punto vorrei porre alcune domande a cui cercherò, nello spazio limitato di questo articolo, di accennare alcune risposte; altre domande, forse, resteranno aperte. Che cosa ha portato Gaspare Spatuzza a un cambiamento così decisivo nella sua vita? È proprio vero che la religione cristiana può cambiare una vita? E se la risposta a questa domanda è positiva, come io sono convinto, occorre chiedersi, allora, come mai nella stragrande maggioranza dei casi la professione di fede cristiana non cambia la vita delle persone. Riguardo al caso Spatuzza ci si potrebbe chiedere anche: tale conversione è autentica o è condizionata dalla ristrettezza del carcere? Ma questo lo sa soltanto lui nel segreto della sua coscienza e lo sa Dio “che vede nel segreto”. È un dato di fatto che la fede cristiana molto spesso convive con situazioni di vita che sono distanti anni luce dai contenuti di tale fede. E questo non soltanto nel caso degli appartenenti alla criminalità organizzata, che spesso, quando sono “in carriera”, ostentano crocifissi, praticano “battesimi” di sangue, chiamano la loro cosca “sacro vangelo” e nei loro nascondigli si trovano bibbie, immaginette di santi e della Madonna, se non veri e propri altari, com’è pure capitato. Ma si professano cristiani anche tanti politici corrotti, preoccupati solo del mantenimento del potere, politici che propugnano l’odio razziale, imprenditori ossessionati dal profitto a qualsiasi prezzo, speculatori d’ogni risma e tantissimi altri che all’uopo esaltano alcuni particolari aspetti o simboli della religione cristiana, pur calpestandone vistosamente i principi più basilari, quali il profondo rispetto per il prossimo, la ricerca della giustizia e l’impegno per la costruzione di un contesto sociale più umano e più accogliente per tutti. È da presumere – visto che ci troviamo in un “paese cattolico” come l’Italia – che i soggetti summenzionati, come la stragrande maggioranza degli italiani del resto, siano stati battezzati in tenera età e poi cresimati, siano andati al catechismo, si siano sposati in chiesa, vengano spesso a contatto con le comunità cristiane e siano anche attaccati in modo particolare a qualche santo o alla Madonna, di cui festeggiano puntualmente le ricorrenze. A ben riflettere, tutto ciò lascia emergere un’enorme contraddizione, prima di tutto nella prassi delle comunità cristiane nel nostro paese e nelle regioni meridionali in particolare. È a partire da queste contraddizioni che occorre chiedersi se l’annuncio cristiano sia riuscito, e riesca tuttora, a presentare la vera immagine di Dio e le reali esigenze della sua parola. La teologia, che per statuto dovrebbe difendere il “buon nome” di Dio, in tutto questo ha delle gravi responsabilità, poiché mi pare che molto raramente si sia soffermata a riflettere seriamente su queste gravi contraddizioni, preferendo forse terreni più ameni. Mi hanno molto stimolato, quando ho avuto la possibilità di affrontare tali argomenti per iscritto o in incontri pubblici, alcune espressioni molto forti utilizzate da monsignor Giuseppe Agostino in una sua Lettera di qualche anno fa. Tali espressioni non possono lasciare tranquilli i responsabili della chiesa a tutti i livelli. Il vescovo rilevava con preoccupazione come spesso l’ethos mafioso “sia colorato, talvolta, di religiosità e moralismo, spudoratamente, ma con agganci a una visione di Dio e dell’uomo che non è scalfita, ma forse conservata dalla qualità della nostra evangelizzazione” (“Mafia ed Evangelizzazione nel Crotonese”, 1992). Concludo questa mia riflessione con un richiamo al sangue versato da don Pino Puglisi in quel 15 settembre di ventisei anni fa e che sicuramente non è estraneo a quanto sta avvenendo oggi nella coscienza del suo assassino. “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”, scriveva Tertulliano nel II secolo dell’era cristiana. Precisamente a questa forza, misteriosa ma reale, del sangue dei martiri ho pensato leggendo quanto è avvenuto un giorno – doveva essere una domenica – nel carcere di Ascoli. Il cappellano di quel carcere racconta di quando Gaspare Spatuzza lesse proprio una frase di don Puglisi riportata sul foglietto della messa domenicale. «Notai – racconta il cappellano – che rimase colpito, tanto che lo fece notare, alzando in aria il foglietto e facendomi capire che aveva rivissuto in quell’istante il dramma di quel delitto». Monsignor Oscar Romero, un altro martire dei nostri tempi, troppo presto dimenticato dalla stessa chiesa, diceva – prima di essere assassinato dal regime militare il 24 marzo 1980 a San Salvador -: «Come cristiano, non credo nella morte senza resurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno». Che la morte di questi martiri per il Vangelo, e di tantissimi altri uomini e donne che hanno dato la loro vita nella lotta alla mafia, non sia stata vana. Che il ricordo del loro sangue versato risvegli tutti noi dal torpore e segni una rinascita delle comunità cristiane e delle comunità civili meridionali.

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