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di PIPPO CALLIPO
MI ha detto un giovane a Cerzeto: “Non parli di morale, parli del lavoro”. Figurarsi se io, imprenditore non di quelli che sono parte integrante delle reti affariste-clientelari, non ho a cuore il tema del lavoro. Però c’è una “questione morale” in Calabria che è dirompente. La separazione fra gli interessi della politica e quelli della Calabria e l’ostacolo a ogni innovazione e presenza nuova (le donne soprattutto), sono fatti su cui riflettere. L’appello agli onesti che lancio ha oggi un senso speciale, perché la nomenclatura in Calabria sta stroncando non solo lo sviluppo possibile, ma la nostra credibilità in Europa. Questo, dunque, non è più il tempo per escamotage. Occorre fare una battaglia per rimettere in carreggiata la Calabria. Da qui, l’esigenza di riscoprire un’etica pubblica che la vecchia politica non include, perché solo così può dar corso alla sua inconcludenza amministrativa. In tanti provvedimenti (per esempio le primarie per soli due partiti pagate però dai calabresi), sembra quasi che i politici si sentano esonerati dall’ obbligo di dar conto di come spendono i nostri soldi. Basti guardare alla sanità: si esulta perché il Governo non l’ ha commissariata. La sanità affoga in un mare di debiti (3 o 4 miliardi?) Neppure quantificati; le prestazioni per i cittadini sono da terzo mondo e negli ospedali si muore; la politica non dispone neanche di un piano sanitario, eppure ci si compiace di non essere stati commissariati. Mai come in questo caso, la politica mostra i tratti di un sistema paralizzato e chiuso: dinanzi a un fallimento come quello della sanità la moralità dei comportamenti è un punto decisivo. Attenzione, quindi, a non separare i problemi dello sviluppo e del lavoro dalla questione morale che si coglie nel rapporto patologico tra questa politica con la società civile. Oggi si è dinanzi a una riduzione dello spirito pubblico collettivo, si ha un senso delle Istituzioni scarso, una bassa qualità delle classi dirigenti, l’erosione della credibilità del sistema-regione: tutto ciò significa sconfitta della democrazia a tutto vantaggio dei poteri illegali. Se in Italia la morale è in conflitto con la politica, in Calabria assistiamo a un oscuramento della morale e al prevalere, in alcune circostanze, del potere nudo che s’impone nelle forme più dirette e a tratti arrogante. L’altro giorno leggevo di uno studio secondo cui nel XXI secolo l’Asia sarà il centro del mondo, mentre l’America e l’Europa scivoleranno in periferia, io ho pensato subito alla mia regione. Se scivolano in periferia l’America e l’Europa, la Calabria in quale periferia finirà? Mafia, inquinamenti ambientali, disoccupazione generale, riduzione degli investimenti e consumi sproporzionati, crollo della produttività e incapacità totale da parte della Regione di dotarsi di qualsiasi politica per lo sviluppo Questo è il quadro. Addirittura, se le cose non cambiano, ci sarà ancora un sistema-regione chiamato Calabria? O di esso rimarrà solo una vaga idea, perché si sarà trasformato, nel frattempo, in un’area senza sviluppo, senza regole, con un’infima qualità della vita, con ampie sacche del territorio inquinate e con una delle mafie più pericolose? Non si diventa Somalia solo per i rifiuti tossici, ma si diventa come la Somalia per l’estrema povertà di larghe fasce della popolazione, per l’erosione di affidabilità del sistema istituzionale ed economico, per l’assenza di regole e per l’alto tasso di corruzione, nonché per la presenza di una criminalità invasiva e ostativa a qualsiasi forma di sviluppo. Dico questo, non per fare allarmismi, ma per far capire meglio qual è il rischio che corriamo. È tempo di fare scelte, di mettere da parte polemiche individuali e pensare che la Calabria chiede aiuto e ha bisogno del meglio dei suoi figli. Succedono cose, in Calabria, che meritano l’attenzione del Paese. Per esempio in Italia si annunciano tagli agli enti locali e per gli stessi parlamentari, ma in Calabria i consiglieri regionali arrivano a 65, includendo i consiglieri supplenti e i sottosegretari. Nell’ ipertrofico apparato della Regione che si regge su “bilanci orali” (fonte ministero dell’Economia) si introduce la figura del consigliere supplente e, in una Regione allo sfascio e riempita fino all’orlo di consulenti/signorsì, buoni per primarie e campagne elettorali, s’introduce la figura del sottosegretario. Mi chiedono i tanti che mi incontrano, cosa farei, subito, io da Presidente. Non ho dubbi: “via la spesa pubblica inutile”. Aboliamo tutti gli Enti inutili, di riffa o di raffa gestiti o finanziati dalla Regione, che, al momento, assorbono un’infinità di risorse ma non servono allo sviluppo. Servono per alimentare le clientele del mercato politico che inghiotte risorse pubbliche regionali, nazionali e comunitarie, per tenere vivo il meccanismo del consenso politico-clientelare che qui da noi ha costi spaventosi neppure quantificabili. Ma ciò a cui occorrerà lavorare immediatamente, è la stesura di un Patto nazionale per la Calabria, regione che dentro un Sud a macchia di leopardo, è un “caso” a forte rischio per la democrazia. È d’altronde illusorio ritenere che la Calabria possa vincere i suoi drammi sociali da sola. Ancora per una fase non breve dovremo richiedere e fare buon uso della solidarietà esterna. Abbiamo problemi strutturali annosi. Alla condizione, però, che gli aiuti esterni siano indirizzati non a scopi indifferenziati o assistenziali, ma all’ampliamento della base produttiva. Un Patto per la Calabria con il Paese, lungo direttrici programmatiche in cui lo sviluppo viaggi assieme a una nuova moralità della politica. Noi dobbiamo liberare la Calabria da una sindrome di autoreferenzialità e aprirla ai mercati e indurre le sue intelligenze al confronto con il resto del mondo. Abbattendo la spesa improduttiva, si possono fare investimenti su settori innovativi da cui può nascere lavoro produttivo. Se la Regione dimostra serietà, impiegando bene le risorse e facendo vedere al Paese i risultati di cui siamo capaci, altri, a iniziare dal Governo, non potranno pretendere di collocare nel nostro territorio soltanto opere faraoniche che rischiano di provocare uno sconvolgimento ambientale d’inaudite proporzioni. La Calabria, per rivendicare sul serio autonomia e piena autodeterminazione, deve ridurre lo scarto tra produzione e consumi ed eliminare i tratti del sottosviluppo e della dipendenza economica che connotano il nostro sistema produttivo. È la porta stretta attraverso cui dobbiamo infilarci. Rappresentiamo una goccia dell’export nazionale, mentre assorbiamo una montagna di risorse nazionali e comunitarie che non sono finalizzati a irrobustire il sistema produttivo con progettualità ben individuate e valorizzando il merito. L’attuale classe politica non predilige la competenza perché a utilizzare le risorse, con lo scopo di ampliare i voti di scambio, è sufficiente il personale del sottobosco politico, che poi è utilizzato per finalità elettorali. Non a caso la Regione Calabria come Ente pubblico, è priva di un’organizzazione burocratica in grado di ritagliarsi spazi di autonomia; questa commistione, che significa “dipendenza” e potere di ricatto sulla politica, rende fragile la Regione dinanzi alle emergenze che esplodono. Siamo allo sfascio. Il fallimento nell’utilizzazione dei fondi comunitari consiste in questo: nonostante decenni di finanziamenti comunitari, la Calabria ha un divario di sviluppo rispetto alle altre regioni italiane ed europee molto amplio e non è riuscita a stringerlo. Con la Campania, la Puglia e la Sicilia, la nostra regione rappresenta il buco nero del Paese, infatti il Sud non è tutto uguale, l’Abruzzo, la Basilicata, la Sardegna e in parte la Puglia viaggiano dentro i canoni dello sviluppo e non è un caso se in queste ultime regioni le relazioni politica/affari/criminalità sono assai meno incidenti. Certo la domanda è: come può la parte migliore del Sud fronteggiare la crisi economica e la mafia se dal centro si premia il peggio del Sud? Qui è lo Stato che ha fallito. E allora, un Paese normale dovrebbe cogliere l’occasione della ricorrenza del suo 150mo compleanno per incidere con politiche attive nel divario Nord/Sud. Occorre una strategia nuova per la valorizzazione del Mezzogiorno nell’interesse di tutto il Paese. Ha detto bene il presidente della Repubblica, quando ha valutato negativamente il bilancio delle istituzionali regionali nel Mezzogiorno: «Le classi dirigenti del Mezzogiorno non hanno retto alla prova dell’autogoverno. Chi si è messo alla guida delle Regione del Sud nel corso di lunghi anni, ha avuto responsabilità che non si possono sottacere». Parole sacrosante, che dovrebbero indurre la politica nazionale a guardare a quanto accade nel Sud con un approccio meno compiacente verso i detentori del consenso conquistato con l’uso distorto delle risorse pubbliche.

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