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Le colpe di Roma e quelle della Calabria.
Hanni fatto un deserto e l’hanno chiamato pace. Quello che resta – e la citazione di Tacito è pregnante – sono macerie materiali, morali, culturali, politiche. Il problema è risolto, non c’è più. Gli schiavi, per di più negri, per di più rozzi, incivili e che puzzano pure, sono stati mandati in giro per lager di prima accoglienza (sic!) e dove loro più piaccia. Anche se tra qualche giorno si tornerà alla normalità, Rosarno resterà una grave ferita della Calabria e dell’Italia. Nessuno può chiamarsi fuori. E, per favore, si eviti il solito ping pong di scarica-responsabilità tra la classe dirigente (sic!) locale e quella nazionale, tra governo calabrese e governo italiano. Chi doveva intervenire per primo. chi ha fatto che. chi è stato a guardare. Smettiamola. A Roma hanno dimostrato di non essere all’altezza di governare una grande questione come l’immigrazione. D’altro canto lo scontro tra linee opposte all’interno del governo non ha prodotto altro che la paralisi. Tra Fini e Bossi sappiamo chi sceglie Berlusconi. La Lega può soffiare sul fuoco a piacimento perché tanto è lei a governare per davvero. Ma nel caso degli immigrati, pur volendo dare sfogo alle pulsioni dei suoi Borghezio e Calderoli, deve fare i conti con altri interlocutori – la Chiesa, per citare il più ostico – che sono su un altro pianeta morale e culturale. Fuoco su Tettamanzi, dunque, quando serve, ma poi Berlusconi sa che se può accontentare il Senatur su tutto, come fa senza ritegno, certamente deve essere meno generoso su questo fronte. E così Fini ha più spazio. Il risultato, quindi, è l’inerzia con gli effetti che si vedono. La piaga si è incancrenita alimentando razzismi anche in zone dove sembrava albergassero da sempre sentimenti profondi di ospitalità. A Catanzaro dicono che il governo è stato assente. E’ vero, come abbiamo appena ricordato. Ma dove erano la Regione e le altre istituzioni locali? A Riace? Sì, e hanno fatto bene. Ma non hanno mosso un dito – come ha detto in tv Annarosa Macrì – su quello che accadeva a sessanta chilometri di distanza, sull’altro mare. A parte quello che potevano fare in supplenza del Governo nazionale latitante (con le prebende ai sottosegretari avrebbero potuto sfamare gli schiavi di Rosarno), perché non hanno ingaggiato su questa materia uno scontro salutare e necessario con Roma? Tutto questo riguarda Loiero e dintorni, Wim Wenders e sindaco di Riace permettendo, ma c’è qualcosa di molto grave che fa da contesto: lo Stato, o la sua parvenza. Esultiamo ogni volta che si colpiscono ‘ndrangheta e malaffare e riempiamo i nostri giornali di foto e dichiarazioni di magistrati, uomini dei corpi dello Stato e rappresentanti della pubblica amministrazione esaltandone le gesta. Poi, il giorno dopo, scopriamo che le cose non sono cambiate e che il contesto resta pressoché identico. Anzi, ci viene il sospetto che quegli uomini valorosi e coraggiosi siano eccezioni. Ricordate la signora Cassiano? Sì, la direttrice dell’Inps di Rossano costretta a vivere scortata, minacciata per mesi lei e la sua famiglia, solo per aver fatto il proprio dovere, vale a dire intervenire nello scandalo gigantesco dei falsi braccianti remunerati dallo Stato mentre gli schiavi neri facevano il loro lavoro per meno di venti euro al giorno nei campi della Sibaritide. Che cosa ci ha dimostrato quella storia? Intanto che per la prima volta un funzionario pubblico si esponeva a quel modo per far rispettare la legalità. Evidentemente prima non era stato fatto, e comunque ora è l’unico caso del genere. L’altro aspetto rilevante è il fatto che il massimo rappresentante dello Stato, il prefetto, svolgeva come da regolamento un ruolo terzo, che oggettivamente, e indipendentemente dalla volontà, finiva con l’essere una mediazione tra la legge e il suo contrario e una legittimazione, ripetiamo, involontaria dei caporioni della rivolta contro la direttrice. Sappiamo che il compito di un prefetto è quello di evitare le tensioni, che peraltro potrebbero anche nuocere alla sua carriera, ma poi perché meravigliarsi che nessuno sia andato a controllare e impedire lo sfruttamento degli schiavi di colore nella Sibaritide o nella Piana o in altre aree della Calabria e del Mezzogiorno? Vi raccontiamo un fatto di vita ordinaria che riguarda uno di noi. Lo facciamo perché testimoni oculari e perché riteniamo che se le cose vanno così per chi comunque ha un rilevante ruolo pubblico come un giornalista figuriamoci che accade ai comuni cittadini. Nella notte tra il 27 e il 28 dicembre scorsi in pieno centro a Vibo viene data alle fiamme e fatta esplodere un’auto intestata alla convivente del nostro redattore Francesco Mobilio e usata da quest’ultimo. Di fronte c’è un pub che era ancora aperto e affollato. Visto che non si trattava di autocombustione – altrimenti si dovrebbero chiamare gli scienziati di tutto il mondo ad approfondire un fenomeno del genere non solo a Vibo ma soprattutto nella vicina Reggio dove le auto che vanno in fiamme di notte sono molte, troppe – ci si aspettava che qualcuno chiamasse, oltre che la signora, anche il giornalista per chiedergli se avesse qualche sospetto, se per caso pensasse di aver scritto qualche articolo “pericoloso” che poteva aver dato fastidio a qualcuno. Insomma quello che abbiamo fatto tra di noi per cercare di capire e che, opiniamo, sarebbe corretto e pregiudiziale fare in un’indagine. Nulla. Fino a questo momento nessuno ha chiesto nulla a Francesco Mobilio e alla sua compagna. Si dirà: ma con situazioni ben più gravi di ordine pubblico possiamo permetterci il lusso di perdere tempo con banali vicende di quotidiana microcriminalità? Questa è una linea sbagliata e assurda che se da un lato tende all’autogiustificazione, dall’altro contribuisce in maniera decisiva ad alimentare una cultura della illegalità, della prepotenza e della violenza come unica legge che funziona. Così vince, così ha vinto l’antistato. Due esempi che confermano quello che ha detto con una frase lapidaria Pierferdinando Casini: lo Stato non c’è. E la colpa è di tutti. Abbiamo detto dello stucchevole balletto di responsabilità tra istituzioni locali e nazionali, dobbiamo solo aggiungere che se tutto questo è possibile è perché noi cittadini lo permettiamo stando alla finestra a guardare, non intervenendo, non sollecitando, non protestando, non esercitando alcuna delle funzioni che una democrazia vera consente, addirittura in molti casi acquietati dal fatto che almeno quelli della ‘ndrangheta garantiscono a modo loro la nostra tranquillità. Ed allora lasciamo che accada il peggio chiudendoci nelle case e assistendo da dietro i vetri delle finestre socchiuse quello che avviene nella società, mentre il seme dell’isolamento, della chiusura, della ricerca del diverso che rovina la nostra serenità e, forse, anche dell’odio incomincia a insinuarsi nel nostro animo.

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