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di BATTISTA SANGINETO
L’orribile vicenda che si è consumata a Rosarno dovrebbe indurre, finalmente, a porre fine alla retorica del “buon calabrese”, della Calabria terra accogliente e dei calabresi privi, a differenza dei sanguinari veneti o lombardi, di venature razziste. Sulle pagine dei giornali locali e nazionali, oltre che nelle dichiarazioni dei politici calabresi, prevale, invece, la tesi “politically correct” che dietro questa catastrofe della civiltà ci sia un solo colpevole: la ‘ndrangheta. Scagionando in tal modo la gente di Calabria che sarebbe, invece, misericordiosa e tollerante come dimostrerebbero i casi di Riace e Badolato. Se i calabresi sono così accoglienti come è possibile che la Calabria sia la regione con la maggiore quantità di clandestini, il 27%, che lavorano e vivono nelle condizioni che abbiamo visto, mentre, per esempio, in Veneto la percentuale è vicina allo zero? Se siamo così ospitali perché il Veneto e la Lombardia, governate anche dalla Lega razzista, sono le regioni che hanno, secondo tutti i parametri e le statistiche, il miglior grado di integrazione mentre la Calabria è, come al solito, all’ultimo posto? I racconti degli immigrati e le cronache di questi ultimi anni riportano, per sovrapprezzo, casi di ripetuta, gratuita intolleranza e violenza nei confronti degli africani non solo nel territorio della piana di Gioia a opera di cittadini “normali”. L’inviato del “Corriere della sera” racconta, in presa diretta, una caccia, da parte di comuni cittadini rosarnesi, al “negretto cugineeeeeetto” da far accapponare la pelle. Io stesso ho un ricordo nitido di un servizio sul TG3 regionale, fatto alcuni anni or sono da Riccardo Giacoia, proprio su quella fabbrica abbandonata abitata nelle medesime condizioni miserevoli da quegli stessi immigrati neri. Nessuno fece nulla. Le forze dell’ordine, i magistrati, l’asl, il sindaco, la provincia, la regione, il governo, la “ggente” caritatevole di Calabria. Nessuno. Una storia, questa rosarnese, da briganti. Calabresi. Vogliamo continuare a pensare che non sia così, che la Calabria non è solo questo, che è anche altro? Vogliamo continuare a dire che la Calabria è principalmente la terra dalle antiche e nobili origini magnogreche, quando proprio le aree colonizzate dai greci a partire dall’VIII secolo a.C., Locri, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria, Gioia Tauro, Rosarno, Sibari sono quelle a maggiore concentrazione ‘ndranghetista? Vogliamo continuare a vantarci di essere noi stessi l’esito ben riuscito, e sol per questo tollerante, di uno straordinario “melting pot”? Vogliamo seguitare a dolerci delle impietose descrizioni dei cronisti “forestieri” che non fanno altro che constatare, e riportare, la barbarie in cui la società calabrese, nel suo complesso, realmente versa? La terribile responsabilità di far parte di una società fino a tal punto marcia non può essere solo della politica e della classe dirigente di questa regione o della ‘ndrangheta, ma è di noi tutti, della cosiddetta società civile che nulla, o troppo poco, ha fatto per scrollarsi di dosso questi gioghi. Il cuore del problema è rappresentato dai calabresi, dalla società calabrese perché fra gli abitanti di questa regione prevale l’egoismo individuale, l’individualismo disinteressato al bene comune che è reso palese dall’incapacità di collaborare, di mettersi insieme per un qualsiasi progetto comune. Insieme alla comprovata assenza di “senso civico” mi sembra ormai evidente che una delle componenti costitutive del carattere collettivo dei calabresi sia proprio la radicata, insopprimibile diffidenza nei confronti dell’”altro”. Un carattere che è – per gente vissuta per secoli al riparo dal mondo, lontana dal mare- il lascito di una storia intessuta di dominazioni e di sopraffazioni. Un’eredità che diventa, però, un usurato pretesto quando, troppo spesso, trascolora in inadeguatezza a stare insieme, a sentirsi dalla stessa parte. Un legato storico che rende incapaci, in assenza di una identità collettiva positiva, di confrontarsi davvero con l’”altro”. L’altro è estraneo, nemico e per ciò stesso può essere combattuto, vinto, umiliato, schiavizzato, bastonato e, nel caso delle ‘ndrine, ucciso. Nella società calabrese è diffusa una violenza che origina da quell’impasto di arcaicità e post-modernità di cui sono composti i rapporti sociali, familiari, economici e politici. Relazioni che conducono all’incapacità di autogovernarsi ed alla diffusione di comportamenti violenti e mafiosi. Ne sono vivissima testimonianza questo “pogrom” rosarnese e, per fare un altro esempio, l’incredibile vicenda, accaduta due o tre estati fa, di quei ragazzi toscani che, perdutisi nel labirinto del popolare quartiere cosentino di Via Popilia, vennero aggrediti e violentemente malmenati per uno sguardo, per nulla. Perché erano “forestieri. I calabresi di Rosarno, di Cosenza e di tutta la Calabria non possono far parte, tutti, di organizzazioni ‘ndranghetiste. Noi calabresi siamo, ho la stessa tentazione di Vito Teti di chiamarmi fuori, collettivamente razzisti e ‘ndranghetisti nell’anima.

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