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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
“Perché dovremmo convivere con queste ignobili creature, con questi stupidi esseri buoni a nulla? I bambini down sono solo un peso per la nostra società. Dunque cosa fare per risolvere il problema? Io ho trovato la soluzione: consiste nell’usare questi esseri come bersagli nei poligoni di tiro”. Si tratta di un testo che uno stupido vanesio ha posto su Facebook, collocato nella categoria “Salute e benessere”, di un gruppo che ha come fondatori e amministratori “Il signore della notte” e “Il vendicatore mascherato”; a tale gruppo si sono iscritte più di un migliaio di persone. Va detto anche che esso, se ha suscitato non pochi consensi, ha provocato anche numerosissime proteste indignate. Persone down -mi rifiuto di parlarne come di “un fenomeno”- sono fortemente presenti in tutto il nostro Paese, dove vivono circa 38.000 persone con questa sindrome. Si ritiene che in Italia un bambino su 1200 nasca con la sindrome di down. Benemerite associazioni si fanno carico di questa realtà e di fornire assistenza a queste persone – certamente più sfortunate di noi, e non per loro “colpa”- quelle cure, in modo che abbiano quelle attenzioni, quelle modalità amorevoli per loro particolarmente necessarie. Tra queste l’associazione “Capirsi Down”, l’Aipd (Associazione italiana persone down) con sede a Roma e 37 sezioni in tutta Italia, saldamente presenti in Calabria e particolarmente impegnata nella risoluzione dei problemi di inserimento di autonomia dei ragazzi e in una serie di iniziative alle quali ho avuto modo di partecipare direttamente. Chi, come me, ha conosciuto alcune di queste persone sa quanta tenerezza, quanto amore possono dispensare quotidianamente; di quanta tenerezza, di quanto amore abbiano bisogno in maniera forse più scoperta rispetto alle esigenze di ciascuno di noi. La bravata di questo stupido è dunque espressione di gratuita crudeltà. Ben venga qualsiasi iniziativa che sarà posta in essere per individuarlo e sottoporlo alle leggi vigenti per questo ordine di reati (istigazione a delinquere, e così via). Noi, però, non siamo né tutori dell’ordine, né custodi istituzionali delle leggi, per cui possiamo porci alcuni interrogativi e tentare, con cautela problematica, di rispondere in chiave non psicologica (approccio sicuramente legittimo), ma in chiave antropologica, approccio ugualmente legittimo. A quale bisogno, presumibilmente, rispondono le considerazioni dell’anonimo declamatore? Intanto, a quello di esprimere le proprie idee, ostentando la propria sicurezza, convinto di essere dalla parte dei “normali”, dei “forti” e, per ciò stesso, dei vincitori. E, se non vincitori in atto, sicuramente tra gli aventi il diritto di vincere proprio per il fatto di appartenere ai “normali”, ai “forti”. E’ l’etica nazista della superiorità razziale, biologica; anch’essa parte da lontano: nell’antica società spartana, i forti, i sani, i guerrieri avevano pieno diritto di cittadinanza; i deboli, i deformi dovevano essere eliminati. La bravata di Facebook è perfettamente omogenea a quegli scenari etici, quell’etnopanorama della violenza di cui ci ha parlato Appadurai, opportunamente ripreso nel nostro ambito dalla riflessione di Marilena Maffei dispiegatasi in diverse sedi. La variegata fenomenologia dell’alterità presenta al razzista i tipi esemplari verso cui canalizzare tutta la propria carica distruttrice. E’ questo fondo limaccioso di razzismo che dobbiamo illuminare adeguatamente per porre a esso riparo e trascenderlo secondo adeguate strategie di superamento e riscatto. Non è un caso che alle discriminazioni sarà dedicato il prossimo Convegno nazionale dell’associazione Italiana per le scienze etnoantropologiche (Aisea) che ho l’onore di presiedere. Le figure dell’alterità rappresentano categorie volta a volta diverse, ma tutte accomunate dall’essere concretazione di una diversità percepita come scandalo, minaccia e quindi da annientare. Con le parole Simone Weil, la vittima è trasformata in cosa: ogni violenza è, dunque, possibile. La storia documenta con tragica “ricchezza” di esempi gli effetti perversi di questa malintesa dialettica identità-alterità, dove l’aggressività del soggetto rinvia alla sua radicale fragilità. Nelle diverse epoche, però, pur insopportabilmente violente, vi era l’argine delle grandi etiche universali: religiose, laiche, che richiamavano a una comune umanità, a un nucleo di diritti inviolabili, di garanzie di cui la collettività doveva farsi carico costituendo così un sistema protettivo per chiunque, abile o disabile che fosse. La progressiva svalutazione di queste etiche in nome di una soggettività tendenzialmente illimitata e di un conseguente edonismo sregolato ha messo in crisi questo nucleo di diritti e di garanzie. L’etica è stata lasciata quale esclusivo campo per i discorsi, ritenuti scontati, di appartenenti a gerarchie ecclesiastiche o a “moralisti”, come viene denominato con irridente disprezzo chiunque, pur non istituzionalmente “religioso”, tenti un discorso ispirato all’etica. La realtà concreta, quotidiana scorre segnata da altri protocolli di valori, da altre declaratorie. In nome della “sincerità”, dell’autenticità, qualsiasi dichiarazione – a prescindere della sua infamia oggettiva – può avere libero corso. Per Facebook – che chiaramente testimonia tali fenomeni, non li produce – va tenuto conto di quanto possa essere rassicurante l’anonimato nel quale si può dire qualsiasi cosa senza essere chiamati a renderne comunque conto. E’ la stessa carica rassicurante della lettera anonima, di tutte le altre forme nelle quali soggetti fragili possono mascherare la loro debolezza truccandola da forza, da violenza. Non si tratta di infliggere alcuna forma di condanna a Facebook, ma di intendere come esso con il potere che dà a chiunque di pronunciare i propri grumi di discorsi come se fossero sempre e comunque distillati di superiore saggezza, con la facilità con cui ci si dispone a dare o a chiedere “amicizia” – non è un caso che si trovino siti di noti uomini politici -, con la rete di rapporti che fa facilmente instaurare, con il tempo che risucchia, quasi fosse droga cui è difficile sottrarsi, si pone come un drammatico “segno dei tempi”, del vuoto e della solitudine che li contraddistinguono, ponendosi, al posto di rapporti veri da conquistare nella quotidianità dell’esperienza reale, come loro patetici simulacri.

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