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di FRANCO CIMINO
In Calabria c’è la mafia ma non c’è la classe dirigente. Nell’anomalia presenza-assenza, caratteristica dei paesi sudamericani, sta il dramma della nostra terra. Hegel ha insegnato che nella dialettica, tesi-antitesi si realizza la sintesi, che nella storia è il risultato della tenace lotta tra una forza e quella a essa contrapposta. Lo sviluppo delle realtà umane è il prodotto di questa dinamica incessante. L’uomo si evolve, le società crescono, la civiltà si espande, quando pochi o molti prendono coscienza degli ostacoli che limitano la libertà, individuale e collettiva. E incominciano a lottare. Le società che si aprono si rinnovano e, pur tra contraddizioni, si evolvono, vedi Sicilia. Quelle che restano chiuse tra paure e rassegnazione, viltà ed egoismo, si fermano. E’ il caso della Calabria. Quest’ultima legislatura regionale si è chiusa on la stessa matrice violenta con cui si è aperta.
L’assassinio del vice presidente del consiglio regionale, Franco Fortugno, non è certamente rapportabile agli attentati da vanti alla Procura di Reggio Calabria. Ma il significato è uguale. La mafia-’ndrangheta avverte che c’è. Comunica la sua presenza politica in un contesto in cui la politica non c’è. E, contrariamente al suo vecchio “mutismo” protettivo e tattico, vuol farlo sapere a tutti. Alle forze dell’ordine e della magistratura, quindi allo Stato, che già lo sanno. Al mondo istituzionale e politico regionale, che fa finta di non saperlo. Ai calabresi tutti, specialmente a quelli che vivono in aree apparente mente meno compromesse dalla sua presenza. Perché lo fa? Perché in modo così clamoroso e aperto? Spudorato, quasi fanatico direi. Il primo motivo deriva dai pesanti colpi che lo Stato le ha inferto in questi ultimi anni con la cattura dei suoi capi più forti e la confisca di in genti beni illecitamente accumulati. A questo risponde riaffermand la sua potenza e il suo dominio per nulla scalfito dalle recenti menomazioni. Comunica che essa è forte, soprattutto economicamente, e che ha già risolto le questioni più importanti legate al ricambio dei suoi vertici. Ora uomini nuovi, giovani, privi di quell’antico carisma ma forti e ben determinati. Più intelligenti e moderni. Lo scopo, pertanto, non è intimorire quella magistratura coraggiosa e intelligente che non la teme e la combatte, cercandola ovunque nel mondo si sia ramificata e trasformata in tanti imperi economici. Lo scopo è quello di riproporsi quale interlocutore della politica. Di questa politica debole e malata, che la mafia non ha voluto e saputo sradicare dalla nostra terra. Interlocutore in doppio petto grigio, non contro parte o contro potere.
La ’ndrangheta non dichiara di voler esserci. Ma che c’è e ci resta nel panorama senza luci e colori della Calabria che non cammina. Ci resta come forza di potere consolidato, che il potere indirettamente occupa e comunque condiziona. Anche attraverso quell’innaturale legame con la gente, impastato da nocive sostanze costitutive dell’insano rapporto tra i bisogni delle persone e il potere. Tra chi ha la povertà e chi su di essa esercita ogni forma di vile ricatto, trasformando i diritti in favori.
E il lavoro, dal più modesto fino alle più alte cariche burocratiche e professionali, quale benevola concessione sulla griglia delle discriminazioni e del servilismo. Il circolo vizioso del voto scambiato, drogato, è lo strumento di controllo del sistema e di rafforzamento dello stesso. E’ qui il punto di incontro delle culture deboli e dei poteri chiusi e interagenti, anche con varie associazioni “segretistiche”. La mafia non investe in Calabria, come documentano i recenti studi del giudice Gratteri. Perché non considera la nostra terra economicamente vantaggiosa.
Fa perdere tutto ciò che spendi. Sarà vero. Di motivi possono essercene ancora tanti, ma questo è assodato. La mafia-’ndrangheta, che non è più solo corpo armato e spietato, ma anche intelligenza fine, sa, però, che nei prossimi anni, trascinati dal Ponte sullo Stretto, in Calabria arriveranno denari a fiumi. Non vuole di certo stare a guardare. Con fine strategia si muove anche dentro questa campagna elettorale, agevolata da una disputa terribile tra contendenti che parlano di al tro. Di un’altra Calabria, di un’altra politica, di un altro mondo. Non della Calabria com’è, non della politica come dovrebbe essere. Non di un mondo che dovremmo cambiare muovendo dalle nostre miserie culturali e morali. Lunedì sapremo co me hanno votato i calabresi. E in quale numero. Ma anche come ha votato la mafia. Sui numeri, forme corrette di un concetto, le parole sputate in queste settimane, serviranno a poco. Come il teorema che la mafia colpisce e uccide chi non rispetta i patti. Perché a questo ne corrisponde un altro di eguale significato: la mafia non uccide quando i patti evidentemente vengono rispettati. Nel silenzio. E nella totale assenza di una vera politica di lotta alla criminalità. Di ogni genere.

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