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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Pietro Citati, ricordando «una realtà importantissima e quasi sconosciuta: Medici con l’Africa», notava giorni fa: Il sentimento più diffuso oggi in Italia è la vergogna» (la Repubblica, 2 aprile 2010). Almeno fosse così; se l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, secondo quanto è stato detto, la vergogna testimonierebbe la consapevolezza della superiorità dell’etica, di una costellazione di valori, pur puntualmente negati nella nostra prassi politica e sociale. Le cose, a mio avviso, stanno ancora peggio. Secondo le parole del fine scrittore, «quasi tutto il Paese sente di essere decaduto, corrotto, degradato: giunto al punto estremo della volgarità e della turpitudine; sull’orlo di una stupidità che si allarga ogni giorno senza riparo. Sembra una condizione senza speranza: non si vede e non si intuisce, da nessuna parte, una possibilità di cambiamento; nessuna strada, nessuna metamorfosi, nessun segno». Mi permetterei di aggiungere una semplice parola, prima di “sente”; quasi tutto il Paese, infatti, “non sente.”. Il sentimento più diffuso oggi in Italia è, secondo me, la rassegnazione. Anche chi non condivide l’aggressività e la profonda corruzione che segna l’agire politico e quello quotidiano della quasi totalità dei nostri rappresentanti nelle Istituzioni e del maggior numero dei componenti la “società civile”, ritiene, magari con amarezza, che questo sia l’andazzo prevalente, che non vi sia niente da fare, salvo rimpiangere improbabili epoche precedenti e, al massimo, sperare di salvarsi l’anima individualmente non partecipando agli atteggiamenti e ai sentimenti prevalenti. È questo, sempre secondo il mio sommesso convincimento, il sentimento più diffuso e fonte di oggettivo pericolo, dato il notevole contributo che i rassegnati danno di fatto all’uccisione della speranza, all’impossibilità che essa nasca nel cuore degli uomini. Eppure, la speranza nei possibili risultati delle proprie azioni è il motore di esse, l’elemento necessario perché si inneschi il processo di mutamento auspicato. Non è, certo, elemento sufficiente, che, come ci ricorda un nostro antico proverbio, “cu’ di speranza campa, disperatu mori”. Occorre, dunque, “organizzare la speranza”, come ribadì Giovanni Paolo II in occasione della sua visita a Napoli. Mi verrebbe voglia di farmi promotore di un movimento (un altro!): «Per l’organizzazione della speranza», ma mi trattiene la considerazione che quasi sempre i movimenti, al di là delle belle parole e delle buone intenzioni, finiscono per mutuare i vizi, le prospettive e le liturgie di quei partiti ai quali pur dicono di contrapporsi. In ogni caso, l’organizzazione della speranza si presenta come operazione complessa e indifferibile, specie «in una stagione storica più ricca di incertezze e di dubbi che di punti sicuri di appoggio» (Giorgio Bocca). E, soprattutto, richiede l’impegno di tutti e di ciascuno. L’alta percentuale dell’astensionismo registrata nelle ultime consultazioni elettorali è stata generalmente interpretata, al di là della tendenza in tale direzione di tutti i Paesi più avanzati dell’Occidente, quale segno di protesta verso le liturgie e l’autoreferenzialità del ceto politico, come ho ribadito con forza in Ossimori della scorsa settimana. Questo ceto ha, da qualsiasi parte politica si collochi, la responsabilità di mostrare concretamente di aver compreso sino in fondo la lezione impartitagli dall’elettorato, iniziando un diverso agire, chiaro, trasparente, senza tatticismi e logiche di apparato, concause di quel distacco di tanta parte della società civile, che gli stessi politici dichiarano di voler al più presto colmare, salvo a non fare assolutamente nulla nella direzione enfaticamente proclamata. Ma non possiamo delegare tutto ai politici, caricandoli di ogni responsabilità, e considerarci del tutto innocenti rispetto ai mali che continuiamo a condannare, fermandoci accuratamente alla fase della denuncia. Considero un privilegio essere stato amico di Leonardo Sciascia e aver assistito da vicino alle manifestazioni della sua lucida intelligenza, del suo sguardo ironico e disincantato. Quando fu eletto alla Camera dei Deputati, andai a trovarlo a Roma e gli domandai come giudicasse la sua esperienza parlamentare; Sciascia mi rispose, come ho avuto già modo di ricordare in questa rubrica, che i deputati non erano né meglio né peggio della società italiana. Noi produciamo la realtà che deprechiamo, noi siamo la nostra realtà. E allora, quale che sia il ruolo che rivestiamo e la funzione che svolgiamo, ognuno di noi deve impegnarsi al massimo perché questa speranza di una Calabria diversa, più vivibile non resti nel limbo dei sogni inattuati, ma diventi sempre più possibile. Impegno da attuarsi non in futuro, più o meno lontano, e neanche da domani. Ma da oggi stesso. Attraverso azioni concrete, magari minute, apparentemente irrilevanti, in realtà di grande significato. E, comunque, dai risultati fecondi. Il resto è silenzio, come ci ricorda il malinconico principe, o chiacchiera inconcludente.

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