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A chi gli chiede com’è che sappia tante cose risponde che “purtroppo” un giorno è entrato nella ‘ndrangheta lucana. Un pomeriggio qualunque nei locali di un autosalone in via Nicola Sole, che è una strada proprio a due passi dalla Questura sotto la chiesa di Santa Croce. Dettaglia con minuzia fatti e circostanze. Ammette il ruolo nel traffico di droga in città, per lo più cocaina, da chi l’andava a prendere, e a chi finivano i soldi.
Vuota il sacco Alessio Telesca, e inguaia tutti gli altri del clan di Antonio Cossidente. Per la procura antimafia è l’arma definitiva, e gli avvocati hanno gioco forza il bisogno di rintuzzare.
È durata due ore e mezza la deposizione dell’ultimo “collaborante” della Direzione distrettuale antimafia. “Collaborante” e non ancora “collaboratore”, perchè le attività di ricerca dei riscontri alle sue dichiarazioni sarebbero tutt’ora in corso, e non si possono escludere anche clamorosi colpi di scena.
Ieri mattina Alessio Telesca è apparso in videoconferenza nell’aula Ferrara del Palazzo di giustizia di Potenza dove si sta svolgendo il processo a Savino Giannizzari, Ferdinando Carlone, Andrea e Alessio Diana, Cesare Montesano, Alessandro Scavone, e Rocco Quaratino, accusati a vario titolo di estorsione con l’aggravante del metodo mafioso per aver imposto a forza di botte il servizio di security in alcuni locali notturni del capoluogo e dei dintorni.
Alla fine il pm Francesco Basentini ha chiesto di integrare il capo d’imputazione assumendo il dato dell’affiliazione ‘ndranghetista di Savino Giannizzari, come testimoniato in udienza prima dal boss Gino Cosentino, quindi dallo stesso Alessio Telesca, che ha detto che a portargli la notizia del nuovo “attivamento” sarebbe stato Antonio Cossidente in persona.
Il suo racconto è risalito indietro negli anni fino alla data dell’incontro con Cossidente, che per un certo periodo avrebbe abitato in una casa di proprietà di un suo parente. Telesca si sarebbe offerto di fargli d’autista dato che gli era stata tolta la patente, riuscendo a conquistare a poco a poco la fiducia e persino l’amicizia del boss, che lo avrebbe reso edotto dei regolamenti della malavita. Il suo primo arresto sarebbe arrivato nel 2003 nell’ambito dell’operazione soprannominata “black Jack”, che aveva scoperchiato il tentativo del clan di imporre un monopolio sui videopoker installati nei bar di tutta la provincia. Poi la scarcerazione e il premio dell’ingresso nella “famiglia” con l’incarico preciso di occuparsi del traffico di droga in città.
Nel marzo scorso Telesca è stato condannato in primo grado a 16 anni di reclusione nell’ambito del processo soprannominato “arma letale”, e un mese dopo è tornato in carcere questa volta con l’accusa di associazione mafiosa, in relazione all’indagine sulla faida interna al clan dei basilischi sventata sul finire del 2007 grazie al sequestro di un ingente quantitativo di armi. A questo punto avrebbe scelto di collaborare con la giustizia.
«Spacciavo – ha ammesso in tono fermo e consapevole – su incarico di Cossidente, che era quello che gestiva anche il traffico di droga su Potenza».
In effetti, per anni gli investigatori si erano domandati chi fosse il personaggio che s’intravedeva dietro la figura di Carmine Campanella, arrestato nella primavera del 2006 con 200 grammi di cocaina purissima in un laboratorio attrezzato per il taglio e il confezionamento delle dosi a due passi dal tempietto di San Gerardo nel pieno centro storico cittadino, e condannato nel febbraio del 2009 a 15 anni di reclusione con tutti benefici del rito abbreviato.
Con Campanella fuori gioco Telesca ha raccontato che «l’uomo di fiducia per il fatto della droga» sarebbe diventato un’insospettabile, il ragioniere Aldo Fanizzi, arrestato solo lo scorso novembre nell’ambito dell’inchiesta sul Potenza calcio.
E non è stata questa l’unica divagazione dal tema del processo in corso. Telesca ha raccontato di aver saputo che Savino Giannizzari e Alessandro Scavone, da lui riconosciuti entrambi come affiliati del clan di Cossidente con tutti i crismi del rito ‘ndranghetista e il grado della “camorra”, uguale al suo, avrebbero accompagnato il presidente del Potenza sport club nella trasferta della promozione a Benevento per la partita decisiva dei play off di serie C2 del 2007. Ma ha negato che gli stessi abbiano mai prestato servizio d’ordine all’interno dello stadio Viviani, questa volta per sua diretta conoscenza in quanto tifosissimo dei rossoblù, e assiduo frequentatore della curva ovest assieme ad altri due imputati del processo “Hooligans” Rocco Quaratino e Cesare Montesano. Telesca ha smentito che Quaratino fosse un elemento attivo del clan mentre Montesano, che è finito tra gli arrestati anche nell’inchiesta sulla calciopoli lucana, di fatto gli sarebbe stato presentato da Cossidente. L’unico interesse che il boss gli avrebbe riferito di avere attorno al campo sportivo sarebbe stato rivolto all’apertura di una sala scommesse.
Quanto invece al ragionier Aldo Fanizzi Telesca ha ribadito che avrebbe fatto parte dell’organizzazione a pieno titolo. All’inizio sarebbe stato solo il collettore dei proventi del traffico di droga, ma con l’arresto di Campanella la centrale di spaccio si sarebbe trasferita proprio nel suo studio. Ha raccontato di essere andato due volte a prendere la cocaina da Fanizzi: «Una nell’ufficio, uno studio che aveva assieme a Cossidente in una palazzina rosa dopo la Renault, e una a casa sua. Ricordo che la prese nel garage. Era lì che la teneva».
Telesca ha negato di aver mai conosciuto Alessio e Andrea Diana. Mentre un altro dei fidati di Cossidente a suo dire sarebbe stato Michele Scavone, coinvolto assieme all’omonimo Alessandro, Cesare Montesano, e il ragionier Fanizzi nell’inchiesta sul Potenza calcio, che gli avrebbe parlato di persona della sua affiliazione dopo un trascorso di “vicinanza” a un altro noto pregiudicato, Dorino Stefanutti, considerato tra i più vicini a Renato Martorano. Ma questa è un’altra storia. E forse un altro clan.
Leo Amato

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