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di VITO TETI
Si chiama Jong Tae Se, il ventiseienne attaccante nordcoreano, è nato in Giappone (dove gioca e vive) da genitori sudcoreani e passato, per scelta, nella selezione dei nemici della Corea del Nord. Il suo pianto, forte e incontenibile, durante l’inno, prima della partita contro il Brasile, resterà un’icona incancellabile della mitologia e della storia di questo mondiale. Avrà ripensato, con quelle lacrime, alla sua vicenda esistenziale e politica, avrà fatto i conti con la sua storia, avrà immaginato di dare senso alle sue controverse appartenenze? C’è da credere che quel pianto che anticipa una partita, giocata dignitosamente e persino con un gol bello e “storico” a un Brasile impacciato e imbrigliato, verrà proposto e riproposto ai telespettatori nordcoreani come esempio di attaccamento alla patria, alla nazione, all’ideologia da parte di una delle più terribili dittature dei nostri tempi. Dai mondiali vinti dall’Italia nel 1934 e nel 1938 (durante il fascismo) a quelli vinti dall’Argentina durante il feroce regime dei colonnelli nel 1978 a questi odierni il calcio (come lo sport) è anche il luogo in cui il potere tenta legittimazioni, distrazioni, autocelebrazione. Il calcio è anche economia, anche politica. Debbono farsene una ragione anche i calciatori che si dicono, sinceramente, apolitici. Il nostro presidente del Consiglio ha cominciato la sua inarrestabile ascesa e la costruzione della sua immagine di vincente proprio partendo con il calcio, oltre che con le sue televisioni (e nel dire questo non confondo gli interessi e anche i sentimenti del capo con le passioni, le emozioni, le ragioni del popolo rossonero). Il pianto, la commozione, i sentimenti meritano sempre rispetto e attenzione, ma la “ragione”, alla quale il tifo non dovrebbe portarci a rinunciare, ci dice che si può piangere, combattere, commuoversi anche per cause sbagliate, in nome di idee e di principi inaccettabili. Anche se non dobbiamo mai sottovalutare e disconoscere le ragioni dell’altro. Avevo sedici anni quando, ai mondiali del 1966, Pak Doo Ik inflisse all’Italia la più cocente beffa calcistica. Non capivo molto, ma fui trascinato nella disperazione dai commenti televisivi, dei giornali, dei grandi. Immagino che, ieri, altri come me, abbiano guardato Brasile-Corea del Nord, tifando Corea con l’inconfessato sogno di una beffa ai “pentacampeones” per lenire quella nostra ferita, quasi per una specie di consolatoria ricerca del mal comune mezzo gaudio. Il Brasile non ha fatto una bella figura, in fondo c’è una Corea per tutti e senza le Coree non ci sarebbero nemmeno il Brasile e l’Italia, tuttavia è riuscito a vincere, grazie alle invenzioni di due suoi grandi campioni. Ma avesse perso, saremmo sati davvero risarciti, vendicati, leniti dalla ferita calcistica del 1966? Non esistono, nel calcio, come nella vita, i risarcimenti; le rivalse hanno sempre un sapore amaro, non sanano mai dalle ingiustizie, dalle disfatte o dalle “disgrazie” subite. Le vendette non sono solo irragionevoli, ma anche sterili, inefficaci, perché impossibili. Dopo 44 anni, tutto è cambiato, i calciatori sono diversi, il gioco del calcio è diventato un’altra cosa. Per le nuove generazioni la partita Italia-Corea è senz’altro, soltanto, un tormentone dei più grandi. La memoria e le memorie sono differenti e di segno diverso, anche all’interno dei piccoli gruppi. Quello che è accaduto è accaduto per sempre, non può essere annullato. Per questo, forse, il tifo “irrazionale”, magico, inspiegabile dovrebbe essere accompagnato anche da atteggiamenti rispettosi nei confronti dei tifosi di altre squadre. Le emozioni eccessive (quelle che provocano odi e amori, rancori e conflitti) non portano da nessuna parte. Non vincono mai, coloro che giocano “contro” e non “per”. Ogni partita vale per quelli che la giocano, la osservano, la ricordano, ma non racconta la stessa cosa a tutti i suoi “protagonisti” e ai loro discendenti. Ogni partita ha una sua storia, può dare un significato diverso e più ricco a quelle precedenti, va inserita in una trama di “lunga durata”, ma è unica e non ripetibile. Come la vita. Per questo bisogna dare importanza a ogni partita, per questo, a giochi fatti, è necessario accettare il risultato, pensare a nuove partite, ad altre vittorie, senza attendere rivincite, che non potranno mai esserci.

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