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di LEO AMATO Le violenze sono iniziate quando aveva appena quindici anni, poi ha trovato il coraggio, ancora minorenne, di denunciare quel padre padrone, ma qualcosa dev’essere andato storto, qualcuno non deve averle creduto, perchè quell’uomo non sarebbe stato arrestato fino al momento dell’esecuzione della sentenza di condanna definitiva a sei anni e mezzo di reclusione proprio per gli abusi sulla figlia, verso i primi di ottobre del 2004, quasi un anno e mezzo dopo l’omicidio dell’avvocato Lanera.
Ma cos’è stato a scatenare la volontà dell’assassino? Come ha potuto concepire un gesto del genere?
Alcune delle risposte sono arrivate ieri mattina per bocca della figlia e dell’ex moglie di Vincenzo Ruberto, imputato per omicidio nel processo che si sta svolgendo davanti ai giudici della Corte d’assise di Potenza.
Incalzate dalle domande del procuratore capo di Melfi Domenico De Facendis, e degli avvocati della famiglia della vittima le due donne hanno ripercorso le ore precedenti quei quattro colpi di pistola, oltre alle impressioni della sera dopo.
Prima l’ex moglie, con un filo di voce spesso strozzato in gola, poi la figlia con piglio più deciso, hanno descritto il contesto dove è maturato uno dei delitti che ha scosso maggiormente la città di Melfi negli ultimi anni.
Una famiglia all’apparenza “ricostituita”, quella dell’imputato Vincenzo Ruberto, dopo la denuncia della figlia, e nonostante quel processo che incombeva sulle loro teste, per cui Lanera aveva assunto l’incarico della difesa. Ma dopo la condanna di primo grado la fiducia tra il legale e il suo assistito si era incrinata e, Ruberto aveva deciso di revocargli il mandato perchè diceva di non essere «soddisfatto del lavoro svolto.»
In proposito l’ex moglie ha ricordato che era così tanta l’apprensione del marito per quella vicenda che a un certo punto non riusciva più a dormire, e una notte l’avrebbe svegliata per portarla quasi di forza nel cortile.
Lì si era puntato alla testa una delle pistole che da un po’ di tempo teneva nel cassetto del comodino. Quella di Vincenzo Ruberto per le armi da fuoco era una specie di ossessione, tanto che da ragazzo si era mutilato l’estremità dell’avambraccio sinistro per colpa di un petardo che voleva far esplodere a tutti i costi. «Se tu pensi che abbia fatto quelle cose io mi ammazzo». Le avrebbe detto pressapoco così.
La ragazza dal canto suo sarebbe stata in casa con loro fino alla maggiore età, quando è riuscita a partire per la riviera romagnola. Per tutta la durata della sua deposizione si è rivolta al genitore che era presente in aula dietro le sbarre chiamandolo “il signore” e correggendosi quando le stava per scappare la parola “padre”.
Ha raccontato la sofferenza di quel ricongiungimento forzato, e della passeggiata all’altare con lo stesso uomo che pochi anni prima aveva approfittato di lei.
Un matrimonio fallito, il suo, con un uomo di origini pugliesi e qualche precedenti penali, che spesso la picchiava, e avrebbe stretto dopo poco un ottimo rapporto proprio con il suocero di Melfi.
Vivevano a Rimini e lavoravano entrambi, ma soltanto due settimane prima del fattaccio dell’avvocato era scoppiata l’ennesima lite, e lui l’aveva colpita selvaggiamente tanto che per lei era stato impossibile tornare a lavorare.
Così aveva preso la decisione di partire, ed era ritornata a Melfi dai genitori con la figlia piccola.
Dopodichè proprio la sera dell’omicidio il suo ex marito sarebbe arrivato a casa loro perchè voleva rivedere la bambina, e si sarebbe chiuso in camera da letto a parlare con il suocero e il cognato Michele, già condannato con rito abbreviato a diciotto anni e mezzo di reclusione per aver fatto da palo davanti all’ingresso dello studio dell’avvocato.
«Parlavano di capelli – ha raccontato la ragazza, che oggi ha ventinove anni – e il “signore” (sempre il padre ndr) tranquillizzava mio fratello su qualcosa che era accaduto».
Quello che Vincenzo Ruberto avrebbe ripetuto in continuazione al figlio che per la sorella era visibilmente scosso, “agitato”, è una frase in dialetto: «L’agg fatt’ statt tranquill. Non potrann mai arrivare a noi».
È un punto molto importante della deposizione perchè delinea il coinvolgimento anche del genero di Ruberto, che fino ad oggi è rimasto fuori dalle indagini e invece avrebbe appreso la sera stessa dell’omicidio chi fosse il vero responsabile dalla sua bocca, e l’avrebbe coperto per tutto questo tempo.
Rispetto al suo comportamento la ragazza si è giustificata cercando di descrivere la soggezione che provava per il padre dopo il trascorso degli abusi.
«Erano fatti loro e a noi nn riguardavano». Sono state le queste le sue parole. Anche perchè il padre sarebbe stato una persona «abbastanza autoritaria, forte» per cui qualunque cosa dicesse loro dovevamo ubbidire senza fare domande.
Anche sui rapporti tra il padre il figlio la ragazza è stata lapidaria. «In fondo non esistevano. – Ha detto- Dall’esterno poteva anche sembrare una bella famiglia ricostruita, ma all’interno c’erano problemi. C’era sottomissione». Così per non andare a peggiorare la posizione del padre il figlio si sarebbe preso la responsabilità per la pistola ritrovata in casa loro.
A quel punto con l’arresto del fratello e la formalizzazione delle accuse per la morte dell’avvocato la ragazza ha raccontato che avrebbe finalmente ricollegato tutte le anomalie di quella giornata.
Come il fatto che il padre avesse chiesto alla madre di mettere a caricare la protesi meccanica per la parte superiore dell’arto sinistro, per la prima volta a sua memora, che era rimasta per anni in un cassetto del comó della stanza della madre, perchè lui diceva che gli dava fastidio, anche se gli permetteva di afferrare oggetti e quant’altro. Si articolava tramite i nervi del polso e un motorino elettrico al suo interno.
Sugli spostamenti e le abitudini del padre la ragazza ha raccontato che andava sempre a lavoro con una valigetta dove portava dei guanti in lattice, e ai tempi del delitto aveva un auto bianca.
Il suo posto era in portineria all’ospedale cittadino, ma spesso si allontanava per fare quello che più gli andava a genio, come quando caricava un autobotte con l’acqua prelevata da una fontana del nosocomio, e la portava da loro in campagna per irrigare i campi. Doveva solo passare le telefonate al centralino e poi alzare la sbarra.
Questi traffici, in particolare, sarebbero stati all’origine dell’ennesimo procedimento nei confronti di Ruberto, quand’era ancora un cliente dell’avvocato Lanera, e il giorno prima del suo omicidio sarebbe stata la parcella proprio per le udienze del processo che ne era scaturito a dare origine alla sua foga assassina.
Sul punto è stata più precisa la moglie di Ruberto che
il 9 aprile del 2003 ha firmato di suo pugno la ricevuta di ritorno della raccomandata con cui l’avvocato intimava a suo marito il pagamento di quanto gli spettava.
«L’ho vista e ne ho parlato con il mio ex marito -è stato il suo racconto – ma lui si é arrabbiato ed era talmente alterato che gli ho detto di calmarsi. Era un periodo che soldi non ce n’erano e gli ho detto di andar a parlare per trovare un accordo per dilazionare i pagamento.»
Ma la risposta di Ruberto sarebbe stata tutt’altro che conciliante, e le avrebbe detto che se la sarebbe vista lui, come era solito fare, dato che era sempre «lui che decideva» ha ribadito la donna torturandosi le dita, «era un carattere che non si poteva parlare bene».
Quanto ai fatti del giorno dopo anche la signora ha raccontato di aver notato che lui le chiese di mettere sotto carica la protesi per l’avambraccio che di solito non usava mai, senza dargli spiegazioni nemmeno a una sua esplicita richiesta perchè a suo dire non erano fatti che la riguardavano.
Oggi la protesi è depositata tra i corpi di reato.
Sulle motivazioni di quella rabbia nei confronti dell’avvocato l’ex moglie di Ruberto ha raccontato che lui le disse che l’aveva già pagato, e per la vicenda degli abusi della figlia aveva fatto richiesta di aderire al gratuito patrocinio, per questo la richiesta «gli sembrava come un insulto».
Sulle pistole la donna non ha saputo spiegare perchè l’ex marito se ne fosse procurate due diverse, e le tenesse nel cassetto del comodino, ma si è ricordata bene che dopo l’omicidio ne avrebbe vista soltanto una, mentre l’altra sarebbe sparita proprio in quei frangenti nel 2003.
Come la ragazza, solo con l’arresto del figlio la madre avrebbe messo assieme i tasselli di quello che era successo quel giorno.
Ha parlato in proposito della «paura» che provava il ragazzo per il padre, che «era un tipo che alzava la voce e qualche volta alzava anche le mani». Quindi per lei sarebbe stato l’uomo a mettere il ragazzo in mezzo a questa storia.
In famiglia non se ne sarebbe mai discusso perchè anche lei aveva paura, e solo nel 2009 tutto le sarebbe apparso chiaro, così avrebbe scelto di recarsi volontariamente in Questura.
La donna è apparsa molto provata. Ha esibito la sua storia e la sua sofferenza per la vicenda della figlia senza sembrare nemmeno troppo convinta che la ragazza abbia detto sempre la verità.
Poi si è difesa da chi le ha fatto notare gli aspetti più incredibili del suo racconto: «Sono stata accusata dal mio ex marito come una poco di buono. Non ci sto con la testa.» Ha ripetuto «Non ci sto più con la testa».

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