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di DOMENICO TALIA
Prima domanda: è meglio essere un eroe in un esercito in disfatta oppure un vigliacco in un’armata vittoriosa? I veri eroi, se ce ne sono ancora, non avrebbero dubbi sulla prima scelta pur sapendo che la seconda li avrebbe visti vivi e vegeti sul carro dei vincitori. Siccome oggi molte battaglie si giocano su un campo verde in 11 contro 11, questo principio vale anche per gli eserciti pallonari. Purtroppo, il dio denaro che ormai domina tutto, seppure i suoi templi di recente hanno scricchiolato paurosamente, spadroneggia anche nel calcio, gioco di un’eleganza estrema perché basato sull’arte di accompagnare una sfera non con le mani, cosa facile per tutti i bipedi con il pollice opponibile, bensì con i piedi, che seppur creati da madre natura per deambulare, si sono dimostrati abili strumenti per geometrie da urlo quando riescono a colpire in un certo modo raffinato una palla di cuoio. Seconda domanda: E’ possibile, dopo essere stato il migliore sul campo in una partita cruciale per la nazione, e quindi in qualche misura un piccolo eroe, arrivare a chiedere scusa per la sconfitta come se la colpa fosse tua? Diventando quindi non solo il migliore nel gioco ma anche il migliore tra i modesti fino a dire tra le lacrime: «Il mister mi ha chiamato e mi ha detto di inventarmi qualcosa. Ho fatto del mio meglio ma il sogno di una vita e di una carriera è finito. Chiedo scusa all’Italia». Queste domande trovano risposta nel comportamento di un calciatore che forse è sceso in campo non pensando al suo conto in banca, ma al suo onore. In una tra le giornate più rovinose ed ignobili per il calcio italiano, tanto da poter richiamare nella memoria dei più anziani la sconfitta per 1-0 del 1966 patita dall’Italia in Inghilterra ad opera della Corea del Nord di Pak Doo Ik, l’attaccante azzurro con il numero 18 sulla maglia, dopo aver segnato un gol, fatto l’assist per l’altro, aversi visto annullare un terzo gol per fuori gioco di quelli che fanno passare serate davanti ai televisori senza venirne a capo, e infine eseguito un tiro respinto miracolosamente sulla linea, di quelli che Nicolò Carosio avrebbe chiamato “quasi gol”, è stato capace di piangere e chiedere scusa per la sconfitta di cui lui non è stato certamente la causa. La carriera calcistica di Fabio Quagliarella, ventisette anni da Castellammare di Stabia, non è stata mai facile. Siccome, un metro semplice di giudizio bisogna pur trovarlo, nel football i portieri si giudicano da quanti gol subiscono (meglio se pochi) e gli attaccanti da quanti gol segnano (meglio se tanti). Per queste ragioni aritmetiche da matematici di scuola elementare, Quagliarella nei suoi undici anni da professionista è stato spesso snobbato. La causa è nel non elevato numero di reti del suo carnet personale. Ne ha fatto 90 in 11 anni. Una media di 8,2 reti all’anno in Italia sono pochi se ci fermiamo alle cifre. Se invece andiamo a vedere il suo impegno, le sue prestazioni complessive in campo, gli assist per i compagni, la qualità delle sue giocate e l’eleganza dei suoi tiri in porta, non si può che concludere che Fabio da Castellammare è un campione. Ed infatti il Napoli, la squadra in cui gioca, dopo tanti anni in cui ha corso in campi nordici, lo omaggia con circa due milioni di euro all’anno che, anche se siamo sempre in un enorme business travestito da sport, non sono certo bruscolini. Nonostante tutto questo era stato l’ultimo ad arrivare tra i 23 azzurri scelti per andare in Sudafrica e dopo due partite da spettatore (che almeno non ha dovuto pagare il biglietto di ingresso) è stato l’ultimo a scendere in campo per la Nazionale ormai ex-campione del mondo. Ma forse era tanta la voglia di giocare che appena in campo Quagliarella ha fatto rimpiangere la sua assenza nelle due partite precedenti. Il numero 18 azzurro (in Nazionale e nel Napoli), in quei 45 minuti che ha potuto giocare ha saputo fare molto di più, e meglio, di quanto fatto, o non fatto, da tutti i suoi compagni nella partita infelice ed in quelle precedenti. E dopo aver lottato come nessun’altro, da eroe di un’armata ormai sconfitta si è lasciato andare ad un pianto a dirotto frutto del fallimento e del rammarico. Quel pianto, forse unico tra gli undici, ci ha fatto capire che Fabio Quagliarella, in quella partita ci ha messo tutto il suo cuore, oltre alle gambe. Tuttavia, quando in mezzo ad undici è un cuore solo a battere, i risultati necessariamente sono quelli negativi che l’Italia del pallone ha ottenuto contro la giovane Slovacchia. Invece di quello di Quagliarella avremmo voluto vedere il pianto degli altri dieci e di qualcun altro che stava in panchina, ma ciò non è accaduto e questo aumenta il merito dell’attaccante figlio del Sud che ha saputo giocare e anche piangere per i suoi compagni che non lo hanno fatto.

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