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di TONINO PERNA
L’intervento di Salvatore Orlando ha suscitato un dibattito che rischia di confondere più che di chiarire i termini della questione: la programmazione e la gestione dei Por. Diciamolo subito: l’ing, Orlando è un tecnico di valore, onesto, che ha ben operato anche fuori del contesto regionale (a Bruxelles ed a Cagliari, come esperto della giunta Soru) , e non merita gli attacchi di cui è stato oggetto (persino tra gli esponenti del Pd). Detto questo, lo stesso Orlando sbaglia ad entrare nell’agone politico e sottovaluta il fatto che lui ha operato da tecnico e non ha potuto gestire politicamente i fondi europei. Inoltre, un governo regionale non si salva o si condanna solo per come ha gestito i fondi, ma anche per altre scelte che riguardano le persone (i manager), le aree e i settori prioritari, la trasparenza e l’efficacia della macchina pubblica. Ma la vera questione che si pone è un’altra: che cosa sono e a che cosa dovevano (e devono ancora per un quinquennio) servire i Por? Come gli addetti ai lavori ben sanno, i Por fanno parte dei Fondi strutturali europei e costituiscono dei flussi finanziari che da Bruxelles vengono inviati alle regioni d’Europa con un peso ponderato in base al Pil regionale. In soldoni: più una regione è povera, più in percentuale i Fondi comunitari sono consistenti. Questa scelta fa parte della filosofia politica che ha ispirato, in passato, l’Ue: ridurre i divari regionali senza penalizzare le aree più ricche, far sì che le aree economicamente arretrate possano “avvicinarsi” in termini di Pil alla media europea. Ma, a fronte di questa strategia di riduzione dei divari regionali le procedure messe in campo dalla Ue destano non poche perplessità. Una prima riguarda il concetto stesso di “sviluppo” che non può essere ridotto al solo parametro della crescita del Pil, e allo stesso tempo non si può raggiungere solo con più risorse finanziarie (esiste l’effetto colabrodo nelle regioni “dipendenti” dalle risorse esterne). Una seconda perplessità riguarda “il metodo” che premia le regioni che rimangono economicamente arretrate. Se la Calabria resta tra le regioni meridionali che fanno parte dell’Obiettivo 1 è perché non è riuscita a “convergere”, vale a dire a registrare un Pil pro-capite pari al 70% della media europea. Gli Abruzzi, la Sardegna, la Basilicata che ci sono riuscite, escono dall’Obiettivo 1, e quindi avranno meno risorse economiche per il prossimo quinquennio. In sostanza: se una classe politica e imprenditoriale è incapace Bruxelles la premia o, volendo essere buoni, gli dà ancora un’altra chance, per una, due, tre volte. L’ultimo treno è quello del quinquennio 2007/2013 dove, su un totale di Fondi strutturali di 347 miliardi di euro, sono stati stanziati ben 251 miliardi di euro per le regioni Obiettivo 1: quattro regioni del Mezzogiorno, una gran parte delle regioni della Grecia, del Portogallo e del Sud-ovest della Spagna, e la gran parte dei paesi dell’Est europeo. Difficilmente la “convergenza” auspicata da Bruxelles potrà verificarsi. A tutt’oggi non c’è una seria analisi del perché in alcune regioni europee si sia ridotto il divario (non solo in termini di Pil, ma anche di qualità della vita, che è ben più importante) e in altre si sia addirittura aggravato. E tra queste regioni, purtroppo, ci dobbiamo mettere la Calabria. Nella nostra regione i flussi finanziari europei sono stati vissuti come una manna dal cielo per rafforzare il potere della burocrazia e della classe politica, nonché per continuare ad assistere imprese fragili o di breve durata. Non c’è stato nessun interesse a capire che bisognava utilizzare queste risorse aggiuntive per modificare la Struttura economica regionale (non si chiamano forse Fondi “strutturali”?). Bisognava che la classe politica, insieme a quella imprenditoriale, alle rappresentanze del mondo del lavoro e dell’associazionismo, della cultura e della ricerca, facessero delle scelte chiare: a) quali settori produttivi potenziare; b) come salvaguardare il patrimonio culturale, paesaggistico, ambientale; c) come migliorare la qualità della vita e garantire un minimo vitale ai cittadini di questa regione. E poi ancora: idee, idee-forza, creatività capace di guardare in alto, di scommettere su sogni che si possono realizzare anche in questa terra marginale. Scelte di campo non velleitario che tenessero conto della nuova divisione internazionale del lavoro, della crisi ambientale, delle fibrillazioni nel settore vitale dell’agroindustria. E’ mancato un progetto per questa regione, una visione condivisa del suo futuro, un orizzonte comune capace di mobilitare le sue migliori energie. La politica è stata ridotta a emergenza molto prima dell’11 settembre e della gestione spettacolare del terremoto aquilano. Ancora oggi non sappiamo rispetto alla crisi energetica quale ruolo voglia giocare la Calabria. C’è chi vorrebbe ritornare alle centrali a carbone (a Saline Joniche e a Rossano) o addirittura al nucleare. Cosa hanno a che fare queste scelte con la valorizzazione delle risorse locali su cui puntano, a parole, tutte le forze politiche? E nel settore dell’agricoltura a che cosa sono serviti i Por? Come hanno migliorato il mercato agrumicolo o quello oleario, visto che i prezzi del cosiddetto “libero mercato” hanno penalizzato i produttori, soprattutto i più piccoli e indifesi? C’è qualcuno che pensa che si possa debellare la piaga dello sfruttamento degli extracomunitari a Rosarno con le arance pagate a 5 centesimi al kg? E’ chiaro che con i Fondi comunitari non possiamo piegare il mercato capitalistico/monopolistico. Ma con queste risorse si possono sostenere quelle forze sociali ed economiche che si stanno organizzando per modificare il modo di funzionare di questo mercato. Penso, solo per fare un esempio tra i tanti, ai Gruppi d’acquisto solidali della Lombardia che hanno stretto accordi di cooperazione con gli agrumicultori della piana di Catania (e in piccola parte in provincia di Reggio) arrivando a pagare le arance a 50 cent. al kg e offrendole ai propri soci a 0,80. Penso agli acquisti “verdi e a km zero” che hanno scelto decine di Comuni italiani come la via maestra per piegare la “domanda pubblica” alle esigenze di valorizzazione dei prodotti locali e al rispetto dell’ambiente. Penso ai programmi (di successo) di ecoturismo e trekking che sono stati promossi da tanti giovani calabresi, spesso nell’indifferenza delle istituzioni pubbliche. Sappiamo bene che la classe politica, anche la migliore, da sola non ce la fa a cambiare il gap “strutturale” in cui è caduta la nostra terra. Ma la politica deve, questo sì che lo pretendiamo, dare segnali forti, costruire progetti di lunga durata, condivisi e credibili, trasparenti e comprensibili, perché l’altra Calabria che ancora non si è arresa e omologata possa trovare uno spazio dentro cui esprimere le proprie capacità.

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