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di DOMENICO GATTUSO*
Le Università sono in fibrillazione per molteplici ragioni. Pare opportuno evidenziarne alcune di fondo per capire le ragioni di una protesta che si va estendendo nei confronti del Governo: A. un Disegno di Legge del Ministro Gelmini di riforma dell’università pubblica che non piace; B. una Legge finanziaria che prevede consistenti tagli alla ricerca e alle università; C. un attacco feroce al mondo della conoscenza e della cultura che non ha precedenti. Il ministro Gelmini punta alla rapida approvazione della sua proposta di riforma universitaria; vorrebbe che la proposta venisse trasformata in legge entro il prossimo autunno. L’urgenza è dovuta alla spinta di alcune componenti conservatrici che hanno in mente un assetto più baronale e meno libero del sistema universitario, alla spinta del ministro Tremonti che persegue, imperterrito, la sua strategia di tagli indiscriminati alla spesa pubblica, e probabilmente anche al riaccendersi delle proteste nelle università italiane. Ma la proposta di riforma non piace perché mina pesantemente la struttura dell’università pubblica; essa prevede, fra l’altro: o organi di governo verticistici e una abnorme presenza di esterni, eccessivo potere dei rettori e dei consigli di amministrazione rispetto ai Senati accademici, riduzione degli spazi di democrazia; o la scomparsa del ruolo giuridico del ricercatore, sostituito da un ruolo di precariato legalizzato: contratti a tempo determinato, della durata di 3 anni, rinnovabili una sola volta; dopo 6 anni chi non sarà riuscito ad avere una cattedra da professore sarà automaticamente marginalizzato dal sistema; o un taglio del 18% del Fondo di Funzionamento Ordinario (Ffo), ovvero 1,36 miliardi di euro, entro il 2013, con conseguente riduzione dei fondi destinati al funzionamento delle strutture, ai servizi per gli studenti, ai giovani ricercatori, all’edilizia e al diritto allo studio (la conseguenza sarà inevitabilmente un aumento sostanziale delle tasse per gli studenti); o una riduzione degli stanziamenti integrativi per il diritto allo studio del 25 % circa; o una pericolosa spinta verso una possibile regionalizzazione del sistema universitario. La manovra finanziaria, attualmente in discussione, renderebbe operativa la riduzione del Ffo con conseguente impossibilità per gli atenei di poter chiudere i propri bilanci e stanziare fondi opportuni per la ricerca, il mantenimento dei tagli agli investimenti per il diritto allo studio previsti dalla L.133/2008, che vanno ad aggravare una situazione resa già critica dal mancato trasferimento alle Regioni degli stanziamenti previsti dalla L.1/2009, il peggioramento delle condizioni di trattamento economico dei docenti e del personale tecnico-amministrativo. La Finanziaria prevede un taglio complessivo della retribuzione dei docenti stimato in 300 milioni di euro per il triennio 2011-2013. Nel triennio 2014-2016 la riduzione complessiva programmata sarà ancora più drastica, pari a 543 milioni di euro. Il taglio alle retribuzioni dei docenti universitari appare ancora più mortificante laddove si consideri la discriminazione rispetto ad altre categorie del pubblico impiego, della magistratura, della politica; e laddove si osservi che i tagli gravano quasi per intero sui docenti ad inizio carriera, già penalizzati da un’elevata età media di ingresso in ruolo e da stipendi decisamente inferiori alla media europea. L’iniquità della manovra è ancora più evidente se si considerano le riduzioni che si avranno sulle pensioni e sul Tfr, soprattutto dei più giovani. Anche i precari dell’Università (in maggioranza persone mature e produttive, con età media fra 30 e 45 anni) vedono frustrate le loro legittime aspirazioni da una finanziaria che obbliga gli atenei a cancellare il 50% dei contratti in essere. I tagli si fanno particolarmente pesanti per quanto concerne il diritto allo studio: senza i fondi statali ci saranno 45mila borse di studio in meno. Con la conseguenza che la formazione universitaria diventerà sempre più un privilegio per pochi e benestanti: in cinque anni, a Catania, ad esempio, si sono ridotti dal 22 al 14% i laureati provenienti da famiglie con genitori non laureati. Da un decennio l’università italiana è in continuo cambiamento; una riforma si succede all’altra senza miglioramenti visibili, ma generando confusione; corsi di studio e assetti funzionali si modificano continuamente. Ciò ha determinato una instabilità del sistema universitario e un suo conseguente indebolimento. Appare ovvio il sospetto di un progetto politico orientato alla demolizione dell’università pubblica e questo può avere riflessi devastanti in particolare nelle regioni del Sud. La spesa (dati 2007) per Ricerca e Sviluppo in Italia (1,2% del Pil) è lontana sia dal valore medio dell’Ue (1,9%) sia da quella degli Stati Uniti (2,6%) e del Giappone (3,3%). In Europa siamo molto indietro rispetto a paesi come la Svezia e la Finlandia (3,1%) o altri come Danimarca, Austria e Germania (2,5-2,6%). E la situazione nazionale rischia di peggiorare ancora osservando le linee di tendenza degli ultimi anni. L’articolo 9 della Costituzione asserisce che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Come si concilia il taglio dei fondi alle università? Come si può pensare di competere a livello internazionale riducendo i contributi per la ricerca scientifica? Nessuna nazione europea sacrifica il proprio futuro con scelte di questo genere, i tagli si fanno altrove; il governo tedesco, ad esempio, ha scelto di tagliare nel settore della difesa e degli armamenti. Perfino russi ed americani mirano a sottrarre fondi ai potenti signori della guerra per far fronte alla crisi. L’università pubblica italiana è sotto attacco, ma comincia a reagire: si vanno moltiplicando le proteste, si proclama lo stato di agitazione, si succedono assemblee e manifestazioni. Dal 5 al 9 luglio in molte sedi saranno sospese le attività didattiche. Le forme di protesta sono variegate, mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità della situazione. Anche l’Università Mediterranea di Reggio Calabria si sta mobilitando, a valle di assemblee molto partecipate presso le facoltà di Ingegneria e di Architettura; il Senato accademico ha espresso, conseguentemente, una posizione ufficiale di protesta. Non si vorrebbe tuttavia far ricadere sugli studenti gli effetti della protesta, anzi si delinea una generalizzata coesione del mondo universitario nella lotta: docenti e studenti, ricercatori e tecnici, amministrativi e precari sono tutti convinti dell’opportunità di dare un segnale forte a questo governo. Ma occorre far presto, far capire che ci opporremo con tutte le nostre forze alla deriva cui vorrebbero destinare l’Università. L’attacco alla magistratura, le leggi contro la libertà di informazione, le leggi contro la libera università richiamano scenari golpisti sudamericani pagati a caro prezzo. Scenari inaccettabili.

*Docente Università Mediterranea

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