X
<
>

Condividi:
4 minuti per la lettura

di LUIGI NIGER
Fingere per sopravvivere! E poi vivere. Avete letto bene, proprio così: fingere. È il suggerimento terapeutico estremo che ho dato e che continuo a dare, da anni, a tanti pazienti, soprattutto, alle pazienti; con risultati, devo confessare, per lo più positivi e soddisfacenti. Caso clinico più recente: Emma è una donna di 36 anni, bella, intelligente e non occupata. È laureata in biologia e specializzata in neurobiologia, è sposata da sette anni con un architetto più grande di lei di 7 anni e ha due figli, rispettivamente di 5 e 3 anni. Già nel primo colloquio mostra i segni della sofferenza: viso contratto, occhi svagati e tristi, lacrime facili, quasi si nasconde al mio sguardo. Respira con difficoltà, soffre di tachicardia e di bruciori allo stomaco, si accartoccia un po’ su se stessa e tormenta continuamente i suoi capelli. La signora dorme poco e male, i sogni sono agitati, non gusta più il cibo e ha un pessimo rapporto con lo specchio. Non si accetta a livello corporeo in quanto trova eccessi e carenze che il marito puntualmente mette in evidenza. Sostiene di vivere una sessualità insoddisfacente e senza orgasmi, anzi una sessualità imposta e subita. Ha molteplici e varie paure, dalla solitudine alle malattie, dal dolore al tempo che fugge. Ha ridimensionato i suoi molteplici interessi e ha impoverito notevolmente le relazioni sociali e amicali. Non vede un futuro e, talvolta, ha avuto idee suicidarie, che ha combattuto grazie al tenero amore per i suoi bambini. Questo in breve e rapida sintesi il quadro generale. Nel corso dei colloqui emerge, tra l’altro, oltre al vissuto difficile e problematico e alle ostilità e miserie ambientali, un rapporto freddo e astioso verso il marito, al quale imputa continue violenze sessuali, aggressioni fisiche e psicologiche, comportamenti tesi a svalutarne la personalità, restrizioni verso la vita di relazione, gelosia ossessiva. Alle rimostranze di Emma le risposte sono quelle consuete: sei una deficiente, sei una fallita e sono io che ti mantengo e la minaccia che un eventuale tentativo di separazione sarebbe punito con la morte. È qui uno dei veri nodi che hanno gettato la paziente in una disperazione profonda: il ricatto economico ed esistenziale. Spesso le donne si trovano intrappolate in penose e insopportabili relazioni, come quella appena succintamente descritta, apparentemente senza uscita. Nel corso della mia lunga esperienza clinica ho incontrato tante donne che hanno subito e continuano a subire violenze fisiche, sessuali, verbali dai propri compagni ( che non poche volte si aggiungono a quelle subite in famiglia o da altri), con tutto il variegato contorno di comportamenti minacciosi, volgari, umilianti, sempre orientati a distruggere la considerazione che la donna ha di se stessa, con conseguente perdita dell’autostima, quando c’è, e ad allentare la resistenza femminile a tutte le forme di dominio e di sopraffazione e quindi indurre nella psicologia della donna un atteggiamento di resa, di dolente rassegnazione, di avvilente passività. Questo gioco antico e attuale, accentuato nei momenti di crisi economica e sociale, un gioco sporco e disumano tipicamente maschile, riesce quando la donna non ha alcuna autonomia economica né tanto meno può fruire dell’aiuto delle figure parentali. La mancata autonomia economica porta a vivere una condizione di costrizione angosciosa e intollerabile. Quali le reazioni possibili da parte delle donne? Depressione, idee o tentativi di suicidio, identificazione con l’aggressione al punto da giustificare i comportamenti perversi (sindrome di Stoccolma), condizione di angoscia lacerante mista al desiderio di fuga e alla sensazione di schifo. Che fare? È noto che la non autonomia economica impedisce o, perlomeno, condiziona qualsiasi possibilità di scelta; se poi aggiungiamo la presenza dei figli e le minacce di uccisione della donna e il probabile ostracismo dei parenti e dell’ambiente circostante, la situazione diventa veramente insostenibile. La fuga, che in taluni casi rappresenta un comportamento responsabile e creativo, o la risposta violenta finirebbero per complicare il problema, in quanto non sarebbero una soluzione adeguata e soddisfacente. Da qui l’utilità della finzione come tecnica per ridurre i danni, come mezzo, come strumento, come spazio temporale limitato da utilizzare intelligentemente per una futura liberazione. Costruirsi un mondo fantastico diverso anche con un compagno che non c’è o come dovrebbe essere, evitando di ricadere in precedenti mostruose prigioni (rischio sempre possibile della coazione a ripetere). Insomma, alla maniera di J. L. Borges (Finzioni, Einaudi, Torino, 1995) costruirsi una sorta di Enciclopedia illusoria. Fingere una rassegnazione che non c’è, una resa mai accettata, un consenso mai dato. Accortezza, pazienza e perseveranza nella ricerca di vie di liberazione possono produrre risultati insperati. La vita, purtroppo, non senza la nostra complicità, ci costringe a lottare per conquistare la dignità e la libertà momentaneamente perdute. L’importante è mettersi in gioco e provarci, anche perché non sempre i mostri sono invincibili. A volte bastano il silenzio, una risata e un progetto per sconfiggerli.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE