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di LEO AMATO
MELFI – Quando é apparso chiaro quello che stava accadendo si é cercato subito di circoscrivere il fenomeno e passare all’individuazione delle responsabilità, per una punizione che fosse d’esempio anche per l’avvenire. Ma le attivitá degli uomini ai comandi di Michele Calabrese, un ex ufficiale dei carabinieri che dirige la sicurezza nello stabilimento Fiat-Sata di Melfi, non devono essere passate per niente inosservate perché da quel momento, proprio dall’inizio dell’inchiesta interna all’azienda, i casi di sabotaggio sono cessati di colpo.
“Sabotaggio” non é una parola da usare alla leggera. Qui sta in senso tecnico per l’oggetto di una denuncia inoltrata alle forze di polizia tempo un mese fa, che ha dato il via a un’indagine che ad oggi risulta ancora contro ignoti.
Poi ci sarebbe stata la protesta del 6 luglio con gli operai accusati di aver bloccato un carrello robotizzato, che trasportava i rifornimenti alla catena di montaggio, durante una protesta all’interno dello stabilimento contro “i ritmi di lavoro pesanti”, a cui avrebbe preso parte solo una minoranza di lavoratori; le sospensioni, i licenziamenti, e il presidente di Confindustria – Emma Mercegaglia – che a proposito di Melfi prende la parola per denunciare ad alta voce – guarda un po’ – “le iniziative di sabotaggio” consumate nella fabbrica modello dello storico marchio torinese.
Pochi gli elementi a disposizione degli investigatori. I primi episodi risalirebbero a non piú di due mesi fa, nel bel mezzo della campagna per il refendum tra gli operai di Pomigliano sull’accordo tra sindacati e azienda per rilanciare lo stabilimento campano con una nuova linea di produzione, riportando in Italia la Panda che è la più piccola della gamma Fiat, un investimento da 700 milioni di euro, ma anche tanti sacrifici sulle spalle dei lavoratori.
La mano svelta di un contestatore, non si sa quanto organizzato o se soltanto un “cane sciolto”, avrebbe preso proprio in quei giorni a infilare di nascosto dei bulloni nella parte fragile dei propulsori montati sulle vetture in assemblaggio.
Sarebbero una quindicina i casi accertati fino adesso, anche se qualcuno ha già rivisto i numeri al ribasso tra le otto e le dieci unità, per un danno economico ad ogni modo considerevole, ma soprattutto una provocazione, che colpisce dritto nel segno, toccando il punto debole di qualunque grande organizzazione – com’è la Fiat – dov’è che è il nervo scoperto e i sistemi di produzione si rivelano maggiormente vulnerabili al loro stesso interno: l’illusione del controllo.
Una volta che le autovetture venivano trasportate nella piazzola antistante lo stabilimento e messe in moto per il collaudo su pista, quanto sarebbe successo è presto detto: quei bulloni come impazziti avrebbero preso a viaggiare nel cofano anteriore “spaccando” letteramente i propulsori, come riferito da fonti bene informate.
I sistemi di sicurezza dal canto loro sarebbero scattati all’istante, e le auto si sarebbero spente restando ferme al palo semplicemente da prendere e riportare in catena di montaggio, per sostituire il motore appena distrutto.
Bocche cucite nonostante le insistenze da parte dell’azienda, ma si capisce che l’imbarazzo è forte. Fino ad ora nessun problema sarebbe stato riscontrato sulle autovetture in circolazione, e trapela la convinzione che non vi sarebbe la benchè minima chance che un’unità “sabotata” a quel modo possa aver passato i test di routine arrivando nelle vetrine di una concessionaria, per subire ogni eventuale contraccolpo solo in un secondo momento.

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