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di FRANCO CIMINO
Ma quanti sono? Trecento arresti sulla linea telefonica Boccassini-Pignatone, sessanta, da Castrovillari, per la firma di Lombardi, procuratore capo della Direzione Antimafia, per fermarci ai dati dell’ultima settimana. E prima ancora gli arresti eccellenti dei capi dei capi delle varie mafie. In Calabria, con l’arresto del provvisorio reggente, forse soltanto semplice delegato della cupola, avvenuto con il blitz di Milano, sono stati arrestati tutti i componenti del vertice della ’ndrangheta. La precedente cattura di tutti i latitanti sembrava avesse mozzato la testa all’organizzazione criminale più ricca, cruenta e potente del mondo. E invece no. Ne vengono fuori tanti altri. Più che una piovra dai molti tentacoli, la ’ndrangheta appare un essere mostruoso autoriproducentesi. Il che fa pensare che dietro alla legittima soddisfazione per i risultati conseguiti dalle forze dell’ordine, c’è ancora tanta paura da sopportare e molta fatica da fare. La strada è ancora lunga. La criminalità organizzata ha tanto denaro da poter reclutare interi eserciti e tanti altri sull’opposta sponda, contrastarli, combatterli. Con la forza. Della violenza fisica e di quella “diplomatico-politica”. Le mafie ovunque hanno operato nel mondo, hanno goduto, e godono, della protezione di gangli vitali della società. Delle istituzioni e della politica. Sta qui la loro forza. La vera invincibilità, per la quale ogni sforzo, ogni successo, appaiono come quelli di Sisifo sulla montagna. Nel Mezzogiorno, e in Calabria, questa forza è ancora maggiore perché le classiche coperture politiche si sono trasformate in intreccio perverso con una parte della politica, delle istituzioni. E con quella imprenditoria insincera che corrompe e si fa corrompere. Una sorta di interazione costante, nella quale non vi è distinzione di ruoli pur nello scambio di reciproci favori. Bensì commistione, identificazione. Una sorta di delega per rappresentanza. I risultati conseguiti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura coraggiosa e libera, sono straordinari. Storici. Tuttavia, se non si raggiungerà il livello proprio della commistione con la politica, anche queste grandi vittorie risulteranno non determinanti. La giustizia potrà vantare la sua efficienza, ma lo Stato nella sua unicità e interezza, e la società che gli sta nel corpo come il cuore, non potranno considerarsi al sicuro. La mafia si ricostituirà, perché ha una forza in più, oltre a quella economica e militare, rispetto al potere democratico: sa ricambiare i suoi vertici. E lo fa preparandoli e designandoli prima che la necessità li imponga. E lo fa con una rapidità che la politica non conosce. La sua forza sta nell’intelligenza di capire che nel potere non si formano vuoti di leadership o di comando. È giunto, dunque, il tempo di passare alla seconda decisiva fase: colpire quella parte della politica che la rappresenta, ovvero che dalla mafia si fa sostenere. Ovvero, a essa è semplicemente contigua. Se ci si ferma ora, per ragioni le più diverse, fosse anche quella di temere che sulla resistenza di certi poteri infedeli possa cadere in sede processuale tutta l’impalcatura accusatoria, si commetterebbe l’errore più grave. Occorre andare oltre le indagini di Milano e Reggio Calabria e Catanzaro. Alzare lo sguardo e andare fino in fondo. Nel cuore di certe logiche e di certi intrecci di potere. Pensare che il livello politico si riduca all’arresto e all’incolpazione di due consiglieri comunali di Milano, di un assessore di quella provincia, di un semplice consigliere regionale e di un semplice anonimo deputato, ambedue lombardi, equivarrebbe a dire che la colpa di un gigantesco rogo è del cerino. Corrono da un’inchiesta all’altra, da un corridoio a una piazza, tante voci circa interferenze, strani rapporti, strane candidature e talune stranezza del voto. Sono anni che queste voci si ripetono, paradossalmente rafforzando e legittimando proprio le persone chiacchierate. La precedente legislatura regionale è stata investita da un uragano di sospetti e “attenzioni”. Il fatto che sia andata tranquillamente avanti sino alla fine del mandato senza che nessuna di quelle voci e quei sospetti si siano concretati in fatti giudiziari e conseguenti azioni politiche, ha costituito robusta premessa per non rendere tranquillo e sicuro il battesimo della nuova. In Calabria, solo cinque anni fa è stato barbaramente ucciso Francesco Fortugno, platealmente. Beffardamente. Il vicepresidente del consiglio regionale è stato colpito in un’ora del giorno molto attiva e in una sede politica. Quindi pubblica e simbolica. La politica non solo non ha onorato quel pesante sacrificio, rinnovando se stessa e aprendo all’aria fresca le istituzioni. Ma tende a dimenticare quell’uomo e a far dimenticare quel fatto tragico. Al massimo vorrebbe che il più grave delitto politico, insieme a quello di Lodovico Ligato e di Piersanti Mattarella in Sicilia, venga relegato alle cronache giudiziarie. E alle sentenze, pur se quest’ultima, come quelle, incompleta. Perché verità giudiziaria accertabile non sempre coincide con la verità reale.

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